Honeywell, la speranza si riaccende per 420 operai dopo 50 giorni di sciopero
Vertice con Lolli: i dipendenti della multinazionale pronti a tornare in fabbrica A patto che la proprietà accetti l’incontro con i sindacati dal ministro Calenda
ATESSA. Giorno di sciopero numero 50 alla Honeywell di Atessa, fabbrica che produce turbocompressori per auto di media e alta cilindrata. E' una delle vertenze più lunghe e sfibranti mai vissute in Abruzzo e una delle più angosciose nel cuore produttivo regionale per eccellenza in campo automotive, la Val di Sangro.
E' la vertenza simbolo di un Abruzzo poco incisivo sulle politiche industriali e di un Governo che si è scoperto nudo e indifeso di fronte ai "capricci" di una multinazionale. In bilico, con i piedi su un filo sottilissimo che vede prospettive mai smentite dall'azienda tra cui chiusura e delocalizzazione in Slovacchia, ci sono 420 dipendenti e una cinquantina dell'indotto.
Sono giorni plumbei, carichi di ansia, rabbia, paura.
Si sciopera a oltranza dal 18 settembre, ma da giugno le cose hanno preso una piega drammatica, in un susseguirsi di brutte notizie che è esploso alla fine dell'estate con le prime agitazioni di sindacati e lavoratori. Dopo alcuni anni di crisi (la Honeywell di Atessa sta terminando tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione) è stato presentato lo scorso giugno il Bcm, business continuity management, continuità di produzione, giustificato dall'azienda con il fatto che per calamità naturali (terremoto e altre) si debba poter garantire la continuità della produzione ai fornitori. Per questo motivo sono stati copiati tutti codici produttivi di Atessa per realizzarli, in caso di calamità, in Slovacchia.
Le rsu hanno però scoperto che il Bcm sarebbe un vero e proprio back-up di stabilimento per potenziare e raddoppiare il sito dell'est Europa. Il timore è che si copi lo stabilimento di Atessa per poi chiuderlo nel mese di aprile 2018. Anche con l'interessamento diretto del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, in una questione che è diventata di orgoglio nazionale nel braccio di ferro tra Francia e Italia, Usa e resto del mondo, non si è progredito di un millimetro in questi 50 giorni di rabbia e sofferenza.
E', oggi, il giro di boa. Dopo quasi due mesi, che contano sulle spalle dei lavoratori in presidio permanente e sulle buste paga di tutti, falcidiate dalle giornate lavorative perse, i 420 dipendenti della Honeywell hanno deciso, tramite i rappresentanti sindacali, di essere pronti a rientrare in fabbrica. Lo faranno se, al tavolo del ministero dello Sviluppo economico a Roma, l'azienda deciderà di avviare una trattativa "seria" aperta a tutti i protagonisti di questa lunghissima vertenza, sindacati e rappresentanti sindacali di fabbrica (rsu) compresi.
Il vice presidente della giunta regionale e assessore alle attività produttive e crisi industriali, Giovanni Lolli ieri ha avuto l'ennesimo incontro con le parti sociali.
Il "patto" siglato ieri pomeriggio è quello di attivarsi con il ministro Calenda per avere una data di incontro con la Honeywell in tempi strettissimi. Rispetto agli appelli dei giorni scorsi di anticipare la data di confronto prima del 15 novembre, giorno che l'azienda aveva calendarizzato in risposta ad una "call" del Governo italiano, c'è proprio la novità del rientro dallo sciopero. Questo perché da un lato il fronte prima granitico e compatto delle maestranze si sta sgretolando, con una parte di operai e impiegati che premono per salvare il salvabile. Dall'altro si ha bisogno di risposte nette e tempestive. Se c'è un minimo spiraglio che l'azienda possa ripartire, riconvertirsi o reinventarsi, dopo 50 giorni di lotta e di sacrifici, è giusto, per i lavoratori, percorrere anche questa strada.
La conditio sine qua non è però essere presenti al tavolo tutti insieme, faccia a faccia. L'azienda ha sempre posto la pregiudiziale dello sciopero e i lavoratori ora pongono quella del confronto.
Finora i vertici americani e francesi della multinazionale hanno snobbato gli appelli sia regionali che governativi in un pervicace mutismo che ha contribuito ad esacerbare gli animi ad Atessa. E ai confronti ministeriali sono sempre state escluse le parti sociali. Fino ad oggi. «Ci troviamo alla sesta settimana di interruzione delle attività produttive del nostro stabilimento e siamo sempre più preoccupati per l'impatto di questa situazione sul nostro business - scrive l'azienda ai dipendenti - pur rispettando il diritto allo sciopero vorremo ristabilire la comunicazione con voi e i rappresentanti sindacali, ma un dialogo sereno e costruttivo può avvenire solo con il ritorno alla normale operatività».
E' la vertenza simbolo di un Abruzzo poco incisivo sulle politiche industriali e di un Governo che si è scoperto nudo e indifeso di fronte ai "capricci" di una multinazionale. In bilico, con i piedi su un filo sottilissimo che vede prospettive mai smentite dall'azienda tra cui chiusura e delocalizzazione in Slovacchia, ci sono 420 dipendenti e una cinquantina dell'indotto.
Sono giorni plumbei, carichi di ansia, rabbia, paura.
Si sciopera a oltranza dal 18 settembre, ma da giugno le cose hanno preso una piega drammatica, in un susseguirsi di brutte notizie che è esploso alla fine dell'estate con le prime agitazioni di sindacati e lavoratori. Dopo alcuni anni di crisi (la Honeywell di Atessa sta terminando tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione) è stato presentato lo scorso giugno il Bcm, business continuity management, continuità di produzione, giustificato dall'azienda con il fatto che per calamità naturali (terremoto e altre) si debba poter garantire la continuità della produzione ai fornitori. Per questo motivo sono stati copiati tutti codici produttivi di Atessa per realizzarli, in caso di calamità, in Slovacchia.
Le rsu hanno però scoperto che il Bcm sarebbe un vero e proprio back-up di stabilimento per potenziare e raddoppiare il sito dell'est Europa. Il timore è che si copi lo stabilimento di Atessa per poi chiuderlo nel mese di aprile 2018. Anche con l'interessamento diretto del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, in una questione che è diventata di orgoglio nazionale nel braccio di ferro tra Francia e Italia, Usa e resto del mondo, non si è progredito di un millimetro in questi 50 giorni di rabbia e sofferenza.
E', oggi, il giro di boa. Dopo quasi due mesi, che contano sulle spalle dei lavoratori in presidio permanente e sulle buste paga di tutti, falcidiate dalle giornate lavorative perse, i 420 dipendenti della Honeywell hanno deciso, tramite i rappresentanti sindacali, di essere pronti a rientrare in fabbrica. Lo faranno se, al tavolo del ministero dello Sviluppo economico a Roma, l'azienda deciderà di avviare una trattativa "seria" aperta a tutti i protagonisti di questa lunghissima vertenza, sindacati e rappresentanti sindacali di fabbrica (rsu) compresi.
Il vice presidente della giunta regionale e assessore alle attività produttive e crisi industriali, Giovanni Lolli ieri ha avuto l'ennesimo incontro con le parti sociali.
Il "patto" siglato ieri pomeriggio è quello di attivarsi con il ministro Calenda per avere una data di incontro con la Honeywell in tempi strettissimi. Rispetto agli appelli dei giorni scorsi di anticipare la data di confronto prima del 15 novembre, giorno che l'azienda aveva calendarizzato in risposta ad una "call" del Governo italiano, c'è proprio la novità del rientro dallo sciopero. Questo perché da un lato il fronte prima granitico e compatto delle maestranze si sta sgretolando, con una parte di operai e impiegati che premono per salvare il salvabile. Dall'altro si ha bisogno di risposte nette e tempestive. Se c'è un minimo spiraglio che l'azienda possa ripartire, riconvertirsi o reinventarsi, dopo 50 giorni di lotta e di sacrifici, è giusto, per i lavoratori, percorrere anche questa strada.
La conditio sine qua non è però essere presenti al tavolo tutti insieme, faccia a faccia. L'azienda ha sempre posto la pregiudiziale dello sciopero e i lavoratori ora pongono quella del confronto.
Finora i vertici americani e francesi della multinazionale hanno snobbato gli appelli sia regionali che governativi in un pervicace mutismo che ha contribuito ad esacerbare gli animi ad Atessa. E ai confronti ministeriali sono sempre state escluse le parti sociali. Fino ad oggi. «Ci troviamo alla sesta settimana di interruzione delle attività produttive del nostro stabilimento e siamo sempre più preoccupati per l'impatto di questa situazione sul nostro business - scrive l'azienda ai dipendenti - pur rispettando il diritto allo sciopero vorremo ristabilire la comunicazione con voi e i rappresentanti sindacali, ma un dialogo sereno e costruttivo può avvenire solo con il ritorno alla normale operatività».