Ibarra (Wind); "Tecnologia e più pulizia, così l'Abruzzo vince"
Il capo di Wind racconta l’amore per questa terra e la ricetta per il futuro
Max Ibarra aveva 18 anni quando il padre, un importante uomo politico colombiano, gli chiese in quale università americana volesse completare gli studi. E lui, senza scomporsi, rispose:«In Abruzzo». Troppo dolce era il ricordo della vacanze trascorse a Sulmona, la città d’origine della madre di Max, che di cognome fa Ricci. E così fu: Ibarra si iscrisse all’Aquila, inizialmente con il sogno di diventare un giorno un biologo marino. Poi passò a economia e da lì è iniziata una carriera che oggi lo vede al vertice di Wind, la grande compagnia romana di telefonia mobile. Ma le radici abruzzesi non si sono mai recise: la moglie è di Vasto e lì c’è la casa delle vacanze, mentre il luogo del cuore resta Piazza Ovidio, il baricentro dello struscio sulmonese. Ed è con questo manager 44enne che iniziamo una serie di interviste su che cosa servirebbe all’Abruzzo.
Cominciamo dalle cose sgradevoli: che cosa non le piace?
Temo che si stia perdendo il rispetto ambientale: parlo delle cose più elementari, come la pulizia delle spiagge, delle strade...E’ pericoloso, perché poi c’è un fenomeno di imitazione verso il peggio.E poi c’è il problema degli scarichi, della depurazione delle acque.
Che pericolo vede?
Difendere il territorio è fondamentale anche per tutelare la tipicità: l’Abruzzo fa vini straordinari, che si trovano sempre più spesso nelle carte dei ristoranti più in vista. E’ fondamentale poter dire che questo e tutto il resto viene da un ambiente sano.
Passiamo alle cose positive. Qui la gente è ancora vera, vivace e pesa tanto il rapporto interpersonale. Ed è su questo capitale umano che bisogna puntare, con un piano a medio termine, ad almeno cinque anni. Sa che cosa si dice in azienda da noi?
Ce lo racconti.
Sono le persone che contano, tutto il resto si compra. Dunque: investiamo sull’università e sulla formazione, in modo massiccio, creando dei poli d’eccellenza. E creiamo un’infrastruttura tecnologica che serva anche a valorizzare lo straordinario patrimonio naturale della regione.Sì, ma come?
Prendiamo il caso dell’Aquila: lì c’è una facoltà di ingegneria di grande tradizione che deve diventare un Politecnico del livello di Milano e Torino. Nulla di meno. E poi: bisogna raccogliere le opportunità che la ricostruzione, dopo una tragedia così grande, offre.
Parla della smart city?
Certo, servono le infrastrutture tecnologiche che consentano di organizzare la città in modo avanzato e bisogna creare i tools, gli strumenti, per gestire il traffico, l’energia, la logistica e, naturalmente, le telecomunicazioni.
Lei che cosa è disposto a fare?
Vorrei dare a questa terra che amo profondamente un contributo di managerialità e offrire un aiuto come Wind a creare le infrastrutture tecnologiche di cui parlavo prima. Non da soli, sia chiaro, ma assieme ai nostri concorrenti, per far fare a questa terra un salto in avanti.
Ai politici che cosa dice?
Semplicemente di ascoltare le persone che hanno qualcosa da dire e vogliono portare un contributo disinteressato.
Ma lei lo sa che i giovani più preparati da qui se ne vanno all’estero, perché non trovano opportunità?
Non solo da qui: io tengo un corso alla Luiss di Roma e mai come quest’anno ho dovuto registrare una percentuale così alta di ragazzi che, una volta laureati, decidono di espatriare. Stiamo parlando del 90%, pazzesco.
Che cosa si può fare per trattenerli?
Anzitutto fare delle start up, le nuove imprese, il fulcro di un nuovo sistema abruzzese. Noi, nell’ambito di Wind Business Factor, ne abbiamo aiutate trentasei.
Sì, ma per fare che cosa?
Io dico a tutti: puntate sui settori di pubblica utilità, facendo cose semplici in cui un uso intelligente della tecnologia possa fare la differenza. Guardando avanti, perché un altro difettuccio qui sa qual è?
Prego, ce lo dica...
...ci si piange un po’ addosso, con la tendenza a parlare troppo del passato. E c’è uno scollamento esagerato tra le imprese e l’università. La cui autonomia, fuori discussione, non può essere un alibi per creare laureati che mai troveranno un lavoro.
Un’ultima domanda: pentito di avere scelto l’Abruzzo invece degli Usa, trenta e più anni fa?
Creda: assolutamente no.