Il business estivo della camorra: un affare milionario 

La criminalità dietro al commercio del frutto esotico Dalla Romagna al Veneto: ecco le precedenti inchieste

CHIETI. Non solo la droga e l’usura, la contraffazione e il gioco d’azzardo. Gli affari della camorra corrono lungo l’intera penisola e anche dietro l’innocente vendita del cocco sulla spiaggia, come hanno dimostrato più inchieste delle procure italiane, si nasconde la criminalità organizzata. E non è un caso se le quattro persone che rischiano di finire a processo, davanti al tribunale di Chieti, per la tentata estorsione ordita nei confronti di un ambulante concorrente abbiano minacciato la vittima parlando dell’esistenza di un clan di Napoli che gestisce il commercio (ma sarebbe meglio parlare di «spaccio») dei prodotti alimentari anche sulla costa abruzzese, nello specifico tra Pescara e Francavilla al Mare.
BUSINESS MILIONARIO
È un business illegale attorno al quale ruota una serie di problemi che resta spesso in semiombra. A partire dallo sfruttamento di poveri cristi che, indossando cappellini di paglia e con la pelle arrostita dal sole, per dieci-dodici ore consecutive macinano chilometri di battigia al grido di «cocco fresco cocco bello». In un’inchiesta giornalistica portata avanti dal Mattino di Napoli, i guadagni d’oro della criminalità organizzata nel settore della vendita del frutto esotico sono stati stimati in cifre milionarie.
LE ACCUSE
Associazione a delinquere, estorsione, minacce e violenze: sono i principali capi d’accusa nei confronti di un’organizzazione che, qualche anno fa, voleva diventare padrona delle spiagge romagnole. Più nel dettaglio, la polizia di Stato ha alzato il coperchio su una banda che si stava impossessando del territorio con un sistema mafioso. Una famiglia napoletana, infatti, gestiva decine di venditori abusivi di cocco nelle province di Forlì-Cesena, Rimini e Ravenna. Era un’organizzazione impiantata per diventare una «macchina da soldi», come è stata definita dagli stessi investigatori, visto che ciascuno dei venditori abusivi in un’estate si metteva in tasca 10.000 euro e all’organizzazione ne faceva incassare più di 30.000, per un volume complessivo quantificato in diversi milioni di euro.
pistole puntate
I componenti di questo nucleo familiare avevano iniziato a imporsi con la violenza: persino gli operatori di spiaggia venivano minacciati direttamente e in pieno giorno. Le indagini si erano poi estese in tutta la Romagna, portando al sequestro di due basi operative, una a Cervia e l’altra a Riccione, dove le noci di cocco venivano stoccate, tagliate e smistate, senza alcun permesso e, soprattutto, calpestando le più elementari norme igieniche e sanitarie. Anche per il cocco da piazzare sulle spiagge veneziane di Jesolo, Eraclea e Caorle c’era una guerra fatta di minacce, schiaffoni e pistole puntate sul viso dei concorrenti. In cinque, tutti di Soccavo e due dei quali ritenuti appartenenti a un clan di camorra, sono stati processati e condannati in primo grado con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso.
I NUMERI
Fa rabbrividire l’idea di quanto il «sistema» – le camorre dei clan dell’Arenaccia, della Sanità e di Soccavo e San Giovanni a Teduccio – riesca a portarsi a casa a settembre di ogni anno dal traffico del cocco in spiaggia. Le stime fornite dagli investigatori parlano di un milione per ciascun gruppo di paranze. E non sono cifre campate in aria. Per tre mesi di guadagni, ciascun boss che sfrutta i venditori di cocco introita minimo 900.000 euro. Soldi freschi, puliti, che finiscono in buona parte nelle casse della camorra. Denaro non tracciato e pronto a essere riutilizzato per investire in altre attività illecite. A cominciare dal traffico di droga. (g.let.)
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