Pescara
Il Natale di suor Livia la mamma dei carcerati
Dal 2006 presta la sua opera al San Donato aiutando e confortando i detenuti. "In questi giorni i loro familiari arrivano da tutta Italia, ma c'è tanta solitudine"
Ha sperimentato «la vera gioia» in Africa, tra i bambini della Costa d’Avorio «che non avevano niente e si accontentavano di tutto», e ha conosciuto «la miseria vera, la miseria interiore», nel carcere di San Donato dove presta la sua opera dal 2006. Eppure suor Livia Ciaramella, mamma Livia per gli oltre 250 detenuti del carcere di Pescara, in carcere ci capitò per caso ad agosto del 2006, invitata dall’allora cappellano don Marco Pagniello, oggi direttore della Caritas diocesana. «Mi colpì la grande povertà di cuore di tante persone che avevano bisogno di sostegno e di misericordia. E mi fermai».
Abituata ad affrontare storie e coscienze appesantite da errori spesso indelebili per il segno che lasciano da chi li commette e da chi li subisce, suor Livia ha imparato a conoscere, tra le celle del San Donato, la geografia dell’animo umano. Dal papà adottivo che ha soffocato il figlio di 5 anni in preda a un raptus, ai fratelli in cella per aver partecipato all’omicidio dell’ultrà biancazzurro, al “bombarolo” che a gennaio di un anno fa appiccò incendi tra Chieti e Pescara per protestare contro sistema e burocrazia, fino ai casi di droga o violenza sessuale. «Il carcere è un luogo di sofferenza e di dolore, non per chi ci sta per qualche mese», racconta suor Livia, «ma per chi ha la detenzione lunga. Ai carcerati mancano la famiglia e i figli, ma chi non ha neanche una famiglia va incontro a gravi depressioni».
L’ultimo caso è quello del ragazzo romeno che all’inizio di dicembre è stato salvato dagli agenti della polizia penitenziaria piombati nella cella mentre il giovane stava tentando di impiccarsi. «Ci ho parlato a lungo», riferisce suor Livia a cui spesso i detenuti si rivolgono per colloqui e aiuti materiali, «un ragazzo molto chiuso, lontano dalla famiglia». Perché poi, a sentire lei, che li vede ogni giorno, e ogni giorno ne raccoglie richieste e confidenze, la vera àncora di salvezza di chi sta dentro sono le famiglie che proprio in questi giorni stanno arrivando da ogni parte di Italia pur di ritrovarsi in un abbraccio con il proprio congiunto che, a parte la messa con il vescovo la mattina di Natale, farà il pranzo del 25 con i compagni di cella.
«Gli ultimi a mollare sono i genitori, che aspettano i figli fino all’ultimo, soprattutto le madri, che vengono ad ogni colloquio, anche da lontano. E fa male vederle quando invece sono proprio loro, esasperate dal figlio tossicodipendente, che lo denunciano dopo mesi di silenzio. Da fuori», va avanti suor Livia, «non si immagina quanto è importante, per chi sta dentro, il sostegno dei familiari. Qualche tempo fa, ad esempio, Maravalle, il papà che ha soffocato il figlioletto, ha avuto un lutto in famiglia, il papà. Non voleva andare al funerale a Pineto, aveva paura del giudizio degli altri e invece tutta la comunità gli si è stretta in un grande abbraccio. E alla fine, nonostante tutto, si è sentito amato».
Ma a parte i casi di profondo disagio psichico, ci sono varie categorie: «Dal tossicodipendente che va curato al delinquente abituale avido di denaro, perché è cresciuto con questi esempi, fino a chi è vissuto in totale povertà. Una volta accompagnai un giovane detenuto al funerale della madre, a Ponticelli, una casa al settimo piano senza ascensore, con il papà ai domiciliari che prendeva 200 euro di pensione e intorno al capezzale altri quattro fratelli: uno a uno me li sono ritrovati tutti al San Donato». Vuoti a perdere per la società qui fuori, «persone» per mamma Livia, che ha conosciuto la vocazione a 19 anni e che ha espresso subito il desiderio di essere suora missionaria. «Ho vissuto a Genova nelle case protette con le donne vittime della tratta, sono stata in Costa d’Avorio con i bambini che medicavo per le piaghe dell’Ameba e ora sto con i carcerati, perché è da questa parte che voglio stare. Qui ho visto vite rovinate per una cavolata, perché soprattutto l’ultima gioventù è fragilissima, non sa sopportare le piccole sofferenze e per gioco finisce a contatto con la droga e rovina tutto».
Cresciuta tra via Alfonso da Vestea e la Madonna dei Sette Dolori, cinque fratelli, diplomata all’istituto Ravasco e con un papà figlio spirituale di Padre Pio, suor Livia sa ascoltare, ma anche farsi ascoltare dai detenuti: «Facciamo tanti laboratori, abbiamo allestito un presepe nella cappella, due volte alla settimana faccio lezione con alcune volontarie: con me sono tutti rispettosissimi, anche se a volte li sgrido. Ma la sera, quando ripenso alle loro storie, le metto davanti al Signore e piango».