Il pm: giudizio immediato per l’omicidio dell’ultrà

La procura chiede al gip di disporre il processo davanti alla Corte d’Assise a Chieti per i 5 Ciarelli accusati della morte del tifoso biancazzurro Domenico Rigante

PESCARA. La procura impacchetta le prove sull’omicidio del 24 enne ultrà Domenico Rigante, le classifica come “evidenti” e – codice alla mano – sigilla l’inchiesta con il colpo destinato a scompaginare la scacchiera: la richiesta di giudizio immediato. Che vuol dire, con il placet del gip, Corte d’Assise e processo in tempi rapidi per i 5 Ciarelli ritenuti responsabili: Massimo, che fece fuoco con il revolver calibro 38 mai trovato, il nipote Domenico e i cugini Luigi, Antonio e Angelo.A neppure sei mesi dal delitto di via Polacchi – esito tragico di un raid punitivo contro il tifoso biancazzurro, scambiato per il gemello Antonio – l’indagine condotta dalla squadra mobile è pronta a scavalcare l’udienza preliminare, con le sue tappe paludose, e approdare direttamente al dibattimento. Il passo del pm Salvatore Campochiaro è destinato a sfaldare il muro eretto dai rom, accusati di omicidio volontario premeditato e porto abusivo di arma, perché obbliga le difese a effettuare una scelta decisiva per il futuro processuale di ciascun imputato.

Il decreto. Il gip Maria Michela Di Fine ha 5 giorni per emettere il decreto o rispedire gli atti al pm se non dovesse ritenere sufficienti i presupposti per il giudizio immediato. Dalla notifica dell’eventuale provvedimento, gli imputati hanno 15 giorni per chiedere di essere giudicati a Chieti, in Assise, o con il rito abbreviato davanti al gup: è la differenza che corre tra il rischio di vedersi comminare l’ergastolo e la possibilità di non superare i 24 anni grazie allo sconto previsto dal rito alternativo. Ma è anche la differenza tra il tentativo di seminare il dubbio in una giuria popolare provando a rimettere in discussione tutte le prove e le testimonianze raccolte, e decidere di affrontare il processo allo stato degli atti.

Massimo Ciarelli. E’ difficile che il cammino della difesa dell’imputato principale, detenuto a Vasto e finora tutt’altro che reo confesso, non si arresti proprio alla fermata dell’abbreviato. L’avvocato Franco Metta, che rappresenta Massimo Ciarelli insieme all’aquilano Antonio Valentini, ieri non si è sbilanciato (“Devo parlare con il mio cliente”). Ma nel fascicolo processuale sono già entrate, attraverso la scorciatoia dell’incidente probatorio, le testimonianze di chi la sera del primo maggio vide in azione i rom: nonostante il cambio di look, nel giorno del confronto all’americana, tutti e 5 sono stati riconosciuti senza esitazioni dai testi, che ricordano Massimo e Luigi impugnare una pistola.

A supporto della premeditazione, aggravante parente stretta del carcere a vita, la Mobile guidata da Pierfrancesco Muriana ha portato anche altre prove: le minacce di morte rivolte il giorno precedente durante una lite ad Antonio Rigante, fratello gemello della vittima e vero bersaglio dell’agguato; la confidenza di Ciarelli alla fidanzata di essere stato oggetto di una “grave offesa” la sera prima dell’omicidio; l’uso di un’arma altamente distruttiva come la calibro 38 (lo stesso tipo di pistola che aveva ucciso il 20 gennaio il commerciante Italo Ceci e che a luglio è costata la vita anche a Tommaso Cagnetta); i colpi sparati in piazza dei Grue prima dell’irruzione nella casa popolare; il guanto di lattice calzato per fare fuoco. E ancora: la distanza dalla quale è stato esploso il proiettile mortale; la presenza di tracce di rom, sudore e capelli nella stanza al piano terra dove la vittima stava assistendo a una partita con gli amici.

La difesa cercherà di far scivolare l’accusa dall’omicidio volontario a quello preterintenzionale, punito con la reclusione da 10 a 18 anni, puntando sulle conclusioni dell’autopsia che, secondo la difesa, offrirebbe margine per dimostrare che Ciarelli voleva impartire una lezione, non uccidere: «Il colpo è entrato dal gluteo». Replica l’accusa: «Il proiettile è entrato sopra il gluteo e ha perforato l’intestino», uccidendo in meno di due ore il 24enne, già preso a pugni e percosso ripetutamente con un «mezzo contundente di una certa robustezza».

I complici. Restare sopra il carro di Massimo Ciarelli è la mossa più rischiosa e improduttiva per i complici, che finora tra silenzi e alibi improvvisati (“Ero in chiesa”, “Ero all’ospedale”, “Ero al night”) hanno tentato di autosottrarsi dalla scena del delitto. Non è da escludere che qualcuno dei complici tenti di disegnarsi addosso un ruolo più preciso la sera del primo maggio per ridimensionare le proprie responsabilità. I quattro dovranno dimostrare di non sapere che il 29enne rom volesse sparare. Lo scopo sarà quello di ottenere il riconoscimento di una partecipazione minima all’evento. O far scivolare l’accusa verso il favoreggiamento e una pena più mite: 4 anni massimo. L’alternativa corrisponde all’avere impugnato tutti insieme la pistola omicida e ad andare incontro alla più severa delle condanne.

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