IL LIBRO

Il romanzo del bosco, simbolo d'Abruzzo

Se lo guardi dall’alto somiglia a un’impronta. Il segno lasciato, nel tempo, da uno strano animale. Poi atterri e ti addentri. Lo guardi e lo respiri.

Se lo guardi dall’alto somiglia a un’impronta. Il segno lasciato, nel tempo, da uno strano animale. Poi atterri e ti addentri. Lo guardi e lo respiri. E ti accorgi che quell’impronta, di circa 500 ettari, è segno lasciato dal tempo. Da millenni che ne hanno fatto la storia. Storia naturalistica, paesaggistica, culturale. Il Bosco di Sant’Antonio parla di un angolo (quasi) intatto d’Abruzzo.

A quel luogo è dedicato “Il Bosco di Sant’Antonio. Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, XXIII edizione”, volume curato da Domenico Luciani e Patrizia Boschiero, con Francesco Sabatini (Fondazione Benetton Studi Ricerche, 2012, pp. 81). Sfogliando il dossier, che si apre con l’albo delle località insignite dello Scarpa, il pascolo alberato del comune di Pescocostanzo incrocia il suo destino solo con altri due luoghi d’Italia: le Cave di Cusa, in Sicilia e Castelvecchio di Verona.

Il resto è ricerca di “pezzi di mondo” speciali. Dalla Foresta della Memoria nei pressi di Stoccolma ai sentieri di fronte all’Acropoli di Atene, fino al Taneka Beri, Villaggio dell’Atakora, in Benina (Africa), premiato lo scorso anno. «Era arrivato il tempo di coniugare il nostro interesse per i luoghi con quello per l’antropologia», spiega l’architetto e paesaggista Domenico Luciani, coordinatore scientifico del Premio, «un’antropologia estrema fatta di interesse per i beni collettivi.

Interesse per quei luoghi che ci aiutano a capire come grandiose e terribili forze della natura siano state affrontate nella storia delle civiltà agro-silvo-pastorali, e come conoscenze e tecniche, arti e mestieri, norme gestionali e pratiche manutentive, misure di tempo e di spazio abbiano saputo governarle in alleanza». Quella ricerca ha incrociato il luogo dedicato al santo degli animali. «Luogo che abbiamo vissuto intimamente», prosegue Luciani, «e che ha contribuito a rivelarci il volto di un’Italia preromana di sbalorditiva ricchezza, di comunità in cui ancora fortissimo è il rapporto con la natura-madre indomabile, pur nella dimensione di modernità con cui sono chiamate a confrontarsi».

Riserva naturale regionale già dal 1985, dal 1991, anno della sua istituzione, il bosco fa parte del Parco della Maiella; il suo nome risale invece ad un’antica congregazione religiosa devota a Sant’Antonio Abate, cui si deve la costruzione di una chiesetta sul margine orientale della riserva. Il volume racconta della pluridimensionalità di questo «santuario della natura e della civiltà pastorale», come lo ha chiamato Elena Croce. Lo fa attingendo ad immagini, planimetrie, documenti d’archivio, giornali, e con il contributo di studiosi che di quel paesaggio hanno fornito ciascuno una propria chiave di lettura.

«Paesaggio di alto valore scenico» che, per Luigi Hermanin, «è un frammento ben conservato del complesso degli Altipiani dell’Abruzzo». Ma anche luogo culturale. «Il Bosco di Sant’Antonio», si legge nel contributo di Aurelio Manzi, «è il biotipo forestale più conosciuto nell’Italia centrale; oggetto perfino di un poetico e intimo cortometraggio firmato da Ermanno Olmi. Per la salvaguardia di questa selva davvero speciale, agli inizi degli anni Cinquanta fu combattuta una delle prime battaglie ambientaliste dell’Italia repubblicana». Battaglia vissuta, in prima linea, dal cittadino pescolano Benedetto Rainaldi, e che vide anche «il coinvolgimento di eminenti figure», spiega, tra le pagine del volume, Massimo Rossi, «come lo storico Gaetano Salvemini, che per la causa del bosco prese la parola sul giornale.

Il Mondo (19 luglio 1952), diretto da Pannunzio, e l’interessamento dell’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi». Difesa di un bosco di difesa. Le «testimonianze», precisa Rossi, «restituiscono al primo decennio del XIX secolo, periodo rivoluzionario e napoleonico, la cognizione sociale di questi luoghi nella provincia abruzzese del Regno di Napoli». Luoghi con cui da sempre la civiltà agropastorale dell’Abruzzo è stata chiamata a confrontarsi. Richiamo ancestrale o pura necessità qui poco importa. «L’accesso a quei siti alpestri che comprendevano il Bosco di Sant’Antonio», si legge nell’intervento dello studioso sulmonese Ezio Mattiocco, «avveniva attraverso un percorso che nelle più antiche testimonianze scritte, della fine del X secolo, troviamo indicato come “via Nova”, toponimo ricorrente nelle fonti catastali sulmonesi del XIV secolo e in documenti successivi».

E su una linea del tempo mai paga si ritorna oggi a quel bosco di ieri. A guardare i suoi veri abitanti, «i giganteschi faggi plurisecolari con i rami a candelabro o dal tronco contorto nello sforzo che cerca la luce, gli aceri non meno vetusti, le querce, i perastri, i ciliegi, gli agrifogli che dal sottobosco vogliono svettare in alto fusto», di cui scrive Francesco Sabatini che a Pescocostanzo, vicino a quel bosco, è nato. Parlano quei secolari abitanti. «Parlano soprattutto di ritorno a un nostro rapporto più laborioso e intelligente con questa natura», prosegue Sabatini, «voci memori dell’antico connubio tra la produzione di ricchezza e la funzione degli alberi, possenti collaboratori nella fatica degli uomini».

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