Il sarto: resterò aperto fino all’ultimo giorno
Mammoli: per cucire il mio primo abito feci 150 chilometri per trovare la stoffa Il calzolaio Verrocchio: dopo 20 anni di lavoro, ora sogno di andare all’estero
MONTESILVANO. Voci, rumori e colori della trafficatissima via Vestina sembrano d’un tratto sparire dopo aver varcato la soglia di una delle botteghe storiche della Colonnetta, la sartoria di Giovanni Mammoli. «Cucivendolo o fine artista del tessuto», come si definisce lui stesso, Mammoli ha iniziato i suoi primi passi nel settore all’età di 9 anni nel suo paese d’origine, Portocannone in provincia di Campobasso, all’interno della sartoria dei fratelli Castellano – «Dove se non sapevi far nulla, sapevi però imparare», ricorda – per poi affinare le proprie tecniche allo stilista Renato Pacilli. Una volta pronto, il sarto molisano parte alla volta del Venezuela dove, dopo aver conosciuto e sposato Liliana, di Montebello di Bertona, torna a Montesilvano e dopo una parentesi commerciale, apre vent’anni fa la bottega di via Vestina. «Ma oggi i tempi sono cambiati», spiega, «e nessuno si fa fare più abiti su misura. Non ne vale la pena, i vestiti ora costano 70-80 euro mentre io per farlo impiego una settimana». Per questo il sarto si occupa oggi solo di riparazioni, ma non dimentica le sue creazioni. Tra queste un abito molto speciale, un marzotto grigio: «È stato il primo abito fatto in Venezuela nel 1962. Ho percorso 147 chilometri per trovare la stoffa, mi sono sposato con quell’abito 50 anni fa. Dopo di me lo ha usato mio figlio all’università», rivela Mammoli, «e oggi ce l’ho qui per ricordo, lo guardo e mi sento giovane». Tra le doti del sarto la precisione e la pazienza, cosa che manca ai giovani di oggi ai quali l’artigiano non consiglierebbe questo mestiere: «Eppure io continuo a farlo, perché prendo una schifezza di pensione, appena 560 euro, e se non lavoro finché muoio non posso vivere».
Ma il sarto non è l’unico artigiano della strada. Basta percorrere pochi passi per entrare nella bottega di Luigi Verrocchio, calzolaio da oltre 20 anni per aver imparato da un vecchio maestro che lavorava proprio alla Colonnetta. «Avevo 17 anni quando d’estate venivo in questa bottega soprattutto per guadagnare qualche soldo. Poi dopo il diploma», racconta Verrocchio, «il lavoro non si trovava e io mi sono messo in proprio». Anche quello del calzolaio è un lavoro che si è evoluto con il mercato. «Prima si riparava di più perché c’erano prodotti di qualità, ora le persone acquistano il nuovo», spiega Verrocchio, «un paio di scarpe cinesi costa 10 euro mentre per rimettere un soprattacco se ne spendono 5. Le persone quindi comprano senza pensare che la qualità è necessariamente scadente». Il calzolaio racconta inoltre di come siano cambiati anche i clienti: «Oggi sono più gli stranieri a portare le scarpe a riparare anche due, 3 volte prima di buttarle». E alla domanda se consiglierebbe ai giovani di intraprendere questo mestiere, Verrocchio è certo: «In 20 anni non è mai venuto nessuno a chiedermi di poter imparare. Eppure conoscere un lavoro come questo significa poterlo portare sempre con sè e guadagnare la pagnotta ovunque. Tanto che io stesso sto pensando di chiudere qui», conclude, «e trasferire la mia bottega all’estero».
Antonella Luccitti
©RIPRODUZIONE RISERVATA