L’apocalisse: «The Road»
Il film in concorso interpretato da Viggo Mortensen
E’ l’apocalisse: un mondo grigio ormai morto da anni e quasi senza sole quello in cui si muovono con difficoltà e con una pistola un padre e un figlio trascinando un carrello da supermercato in cui c’è tutto quello che posseggono. Questo è lo scenario di «The Road» di John Hillcoat passato ieri in concorso a Venezia 66.
I due sopravvissuti, interpretati da Viggo Mortensen e suo figlio adolescente (il bravissimo Kodi Smit-McPhee) attraversano un’America desolata dove gli alberi cadono, dove le macchine sono abbandonate e dove girano ormai solo bande di teppisti che per sopravvivere praticano il cannibalismo. Questa terra, distrutta da un misterioso cataclisma, vede un padre combattere giorno per giorno per far sopravvivere il figlio e se stesso. Si troverà in situazioni orribili, a fare scelte difficili con un amore verso il figlio che cresce in modo proporzionale all’idea di poterlo perdere o di doverlo lasciare solo una volta morto.
«Il mio bambino per me è come un Dio», pensa a un certo punto Mortensen, in un mondo in cui i bambini con la loro dolcezza e la loro ingenuità, sono sempre più rari. Tra le cose che si sono lasciati alle spalle, nel loro viaggio verso il Sud, dove si aspettano un mondo pi vivibile e un clima più mite, anche la mamma del bambino (Charlize Theron), che ha preferito abbandonare la sua famiglia andando incontro a morte certa piuttosto che aspettare la fine insieme a figlio e marito.
«Quando ho letto la sceneggiatura», ha detto Mortensen in conferenza stampa, «è stato certo importante il fatto che io sia davvero un padre. Ma il film per me è soprattutto una grande storia d’amore tra due persone. Credo che il libro di McCarthy abbia avuto tanto successo e appeal tra gli altri suoi lavori perché racconta una storia universale. Ogni padre pensa subito che questa storia potrebbe capitare a lui».
Spiega invece il regista, per quanto riguarda le scenografie, davvero apocalittiche, del film: «Abbiamo un po’ improvvisato. Siamo andati a girare a New Orleans dopo l’uragano Katrina, in Pennsylvania su un’autostrada abbandonata...».
Ma non c’è solo il fantasy a Venezia. C’è anche la realtà di oggi anche se non farà piacere agli abitanti del Belpaese. Lo stereotipo sugli italiani buoni colonizzatori si ribalta e si aggiorna e la Mostra del cinema di Venezia ne dà ampio conto con una serie di film stranieri che dell’Italia mostrano i lati peggiori: dal devastante potere della tv più becera, nel discusso «Videocracy» dell’italo-svedese Erik Gandini, al razzismo e ai pregiudizi italiani nei confronti dei romeni contro cui punta il dito Francesca di «Bobby Paunescu», con tanto di frasi choc sulla xenofobia del sindaco di Verona Luca Tosi e di Alessandra Mussolini.
Venezia 66 sembra concentrarsi sul tema delle difficoltà degli immigrati con «Il colore delle parole», il documentario di Marco Simon Puccioni (Orizzonti) sulle difficoltà di un gruppo di africani in Italia da oltre 30 anni, stranieri oggi più di quando arrivarono e «Honeymoons» di Goran Paskaljevic, prima coproduzione serbo-albanese concentrata sul razzismo opportunista degli italiani che bloccano gli immigrati e lasciano passare solo chi dà mazzette.
I due sopravvissuti, interpretati da Viggo Mortensen e suo figlio adolescente (il bravissimo Kodi Smit-McPhee) attraversano un’America desolata dove gli alberi cadono, dove le macchine sono abbandonate e dove girano ormai solo bande di teppisti che per sopravvivere praticano il cannibalismo. Questa terra, distrutta da un misterioso cataclisma, vede un padre combattere giorno per giorno per far sopravvivere il figlio e se stesso. Si troverà in situazioni orribili, a fare scelte difficili con un amore verso il figlio che cresce in modo proporzionale all’idea di poterlo perdere o di doverlo lasciare solo una volta morto.
«Il mio bambino per me è come un Dio», pensa a un certo punto Mortensen, in un mondo in cui i bambini con la loro dolcezza e la loro ingenuità, sono sempre più rari. Tra le cose che si sono lasciati alle spalle, nel loro viaggio verso il Sud, dove si aspettano un mondo pi vivibile e un clima più mite, anche la mamma del bambino (Charlize Theron), che ha preferito abbandonare la sua famiglia andando incontro a morte certa piuttosto che aspettare la fine insieme a figlio e marito.
«Quando ho letto la sceneggiatura», ha detto Mortensen in conferenza stampa, «è stato certo importante il fatto che io sia davvero un padre. Ma il film per me è soprattutto una grande storia d’amore tra due persone. Credo che il libro di McCarthy abbia avuto tanto successo e appeal tra gli altri suoi lavori perché racconta una storia universale. Ogni padre pensa subito che questa storia potrebbe capitare a lui».
Spiega invece il regista, per quanto riguarda le scenografie, davvero apocalittiche, del film: «Abbiamo un po’ improvvisato. Siamo andati a girare a New Orleans dopo l’uragano Katrina, in Pennsylvania su un’autostrada abbandonata...».
Ma non c’è solo il fantasy a Venezia. C’è anche la realtà di oggi anche se non farà piacere agli abitanti del Belpaese. Lo stereotipo sugli italiani buoni colonizzatori si ribalta e si aggiorna e la Mostra del cinema di Venezia ne dà ampio conto con una serie di film stranieri che dell’Italia mostrano i lati peggiori: dal devastante potere della tv più becera, nel discusso «Videocracy» dell’italo-svedese Erik Gandini, al razzismo e ai pregiudizi italiani nei confronti dei romeni contro cui punta il dito Francesca di «Bobby Paunescu», con tanto di frasi choc sulla xenofobia del sindaco di Verona Luca Tosi e di Alessandra Mussolini.
Venezia 66 sembra concentrarsi sul tema delle difficoltà degli immigrati con «Il colore delle parole», il documentario di Marco Simon Puccioni (Orizzonti) sulle difficoltà di un gruppo di africani in Italia da oltre 30 anni, stranieri oggi più di quando arrivarono e «Honeymoons» di Goran Paskaljevic, prima coproduzione serbo-albanese concentrata sul razzismo opportunista degli italiani che bloccano gli immigrati e lasciano passare solo chi dà mazzette.