La mia notte nei campi coi dannati del Fucino

Un cronista del Centro ha lavorato da mezzanotte all’alba per raccogliere finocchi insieme a una squadra di stranieri. Ecco chi sono, come vivono, quanto vengono pagati per lavorare nove ore di fila e caricare i camion diretti ai centri della grande distribuzione

AVEZZANO. La fanno facile. Ti danno un machete - perché lo chiamano coltello ma per me di machete si tratta - un paio di guanti e una luce da minatore. E ti mandano nel Fucino a cogliere i finocchi. Sette ore curvo come una mondina del Polesine, col freddo e con l'umido che ti penetrano nelle ossa, perché da queste parti, passate le due di notte, si inizia a battere i denti. «Oggi siamo pure fortunati», mi fa il caposquadra, ricordandomi che lui e i suoi, a caccia di finocchi, ci vanno tutto l'anno, col sole e con la pioggia. La fanno facile loro, che tagliano due tre piante contemporaneamente, con un ritmo invidiabile, quando per me è già tanto riuscire a evitare di affettarmi le dita. Io, unico italiano in una squadra di braccianti marocchini – anche perché di italiani che fanno questo mestiere con questi orari non se ne vedono proprio – la sfida è cercare di integrarmi il più velocemente possibile con il resto del gruppo nel tentativo di raccontare le difficili condizioni di vita dei lavoratori immigrati, schiacciati dall'andamento altalenante del commercio e dai ritmi della maxi-distribuzione. Proprio questi ritmi costringono i ragazzi a lavorare di notte, qui nel Fucino da maggio a fine settembre, in Puglia e Molise nei mesi più freddi, con brina e temperature sotto zero.

Appuntamento alle 24. Mi dicono di farmi trovare lì puntuale, anche qualche minuto prima perché il furgone non aspetta. Thermos con the caldo, giubbetto e guanti di gomma. Sfrutto i residui della tintarella estiva per cercare di mimetizzarmi al meglio con i compagni di squadra, anche perché un italiano sui campi di notte verrebbe guardato con diffidenza dai proprietari terrieri. Il resto lo fanno il buio e la barba incolta. È Kalhed il primo ad arrivare in bicicletta. Il suo gilet ad alta visibilità viene catturato dai fari della mia auto. Fuori dal mio campo visivo ci sono dei materassi. Solo allora mi accorgo che lì c'è gente a dormire, maglietta e pantaloncini corti. E io sto già crepando di freddo. Penso ai tuareg, ai nomadi del deserto, abituati ai quaranta gradi di giorno e al freddo della notte. Ma qui c'è anche da fare i conti con l'umidità. Mi accorgo di essere piombato in un vero accampamento abusivo, fatto di baracche e parabole satellitari, con collegamento diretto ad Al Arabiya e Tv Maroc.

I cellulari. Il resto lo fanno gli smartphone. «Per loro sono l'unica compagnia che hanno», commenta un negoziante del posto. Le memorie dei cellulari conservano musica, ricordi e fotografie dei familiari lasciati a casa. E Kalhed mi mostra orgoglioso le foto dei suoi tre figli nell'appartamento di Casablanca. I due maschietti indossano la tuta del Milan. Poi Kalhed sparisce dentro un casolare di legno e dice agli altri «yellah» (andiamo). Ma gli fanno notare che stanotte si comincia più tardi, visto che invece di un tir c'è da lavorare per una sola motrice, con 48 cassoni di finocchi da raccogliere, anziché 92. La crisi si sente anche tra i solchi del Fucino. Per ingannare l'attesa mi invita dentro il furgone e, sempre col cellulare, mi passa in rassegna il meglio della musica araba del momento. Nancy Ajram, Saber El Rebai, Amr Diab, Ehab Tawfik, e poi ci mette anche Eros Ramazzotti e Marco Carta «per farmi piacere», dice lui. Bene Ramazzotti, ma forse di Carta avrei fatto a meno. Riusciamo a dormire anche un'oretta che, nella prospettiva di lavorare senza sosta fino alle 9 del giorno dopo, non guasta affatto.

Nel Fucino. C’è da mettere anche un sacco di plastica per l’acqua, ma stanotte di acqua sul terreno ce n’è poca. La cosa più incredibile è vederli lavorare allegri e sorridenti. Si fanno scherzi a vicenda, si apostrofano con frasi per me incomprensibili e c’è uno di loro – si fa chiamare Luigi – che mi guarda e mi canta la canzone di Gigione e della “campagnola che fa l’amore con le zizze e’ fora”. Certo, gli dico, «meglio le campagnole che questo freddo», lui ride. Mi parla della Campania e dell’appuntamento che i loro finocchi hanno con la maxi-distribuzione. Si parte da San Marzano del Sarno (Salerno) e c’è da arrivare puntuali, in qualsiasi condizione atmosferica. Verso le cinque e mezza, il caposquadra ha pietà di me e mi concede di venire con lui al bar più vicino a prendere un latte macchiato. Me lo sto sognando dall’inizio. Per oltre tre ore, invece, ho dovuto combattere con l’odore della terra e dei finocchi.

Trattorista in ritardo. Di tutt’altro umore il trattorista, uno del paese, che per caricare le 48 cassette sul camion – un’oretta scarsa di lavoro al massimo – becca almeno 100 euro, mentre i ragazzi della squadra, in notti di magra, come questa riescono ad alzarne al massimo 30. Lui, a differenza nostra, si è svegliato comodamente con la luce del sole, e continua a rimproverarci, ordinando di scartare i finocchi “spigati”. «Quelli vanno bene solo per la Sambuca». Faccio fatica a capire la differenza tra finocchi e finocchi. Lui ha modi pessimi e mi tratta come un deficiente ma io non posso dire nulla perché i compagni mi presentano come un cugino del Marocco.

Controlli. Del resto, non voglio mettere in difficoltà i ragazzi, proprio in un momento in cui la polizia e l’Ufficio stranieri stanno facendo controlli a tappeto nei campi, in collaborazione con la Direzione provinciale del lavoro. Sono le 9.30, quando saluto Kalhed e compagni e mi avvio verso casa. C’è bisogno di una doccia.

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