Lavoro che non c'è, in fuga dalla crisi 500 mila italiani
Negli anni della crisi mezzo milione di nostri connazionali si è trasferito all'estero. Anche gli stranieri preferiscono altri paesi UE
ROMA. Addio ad un’Italia ’matrigna’ da parte di 509 mila connazionali: negli anni bui della crisi economica (dal 2008 al 2015), la scarsità di opportunità di lavoro ha indotto un esercito di oltre mezzo milione di persone a trasferirsi all'estero, cancellandosi così dall'anagrafe dei comuni d'origine.
Ma il nostro Paese, nel periodo 2008-2016, ha perso appeal anche per gli stranieri, prevalentemente provenienti dall'Est europeo (in particolare romeni, polacchi, ucraini e moldavi), visto che quasi 300 mila (con regolare permesso di soggiorno) si sono diretti in altri Stati dell'Ue, o sono ritornati a casa. È il panorama raffigurato dall'Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, nel Rapporto sulla mobilità occupazionale, presentato a Roma.
Mettendo sotto la lente d'ingrandimento la fuga dei cervelli (ad aver fatto le valigie, spiegano i professionisti, è stata soprattutto una platea laureata, «altamente qualificata» e che può vantare un «elevato grado di specializzazione»), si scopre che nel 2015 la meta più ambita è stata la Germania, dove in 20 mila hanno spostato la residenza; a seguire, «in forte crescita», la Gran Bretagna non ancora orientata alla Brexit (19 mila) e, in terza posizione, la Francia (oltre 12 mila).
A risentire molto positivamente del cambio di scenario sono state le retribuzioni percepite, poiché si calcola che la differenza fra lo stipendio medio di chi lavora nella stessa provincia e di chi trova un impiego al di là dei nostri confini «supera i 500 euro (+43,8%)».
La perdurante carenza di valide occasioni di inserimento nel mercato, inoltre, ha incoraggiato il fenomeno dello spopolamento del Mezzogiorno: dal 2008 al 2015, infatti, come è possibile appurare contando i cambi di residenza, 383 mila persone sono andate via dalle regioni meridionali, approdando nelle aree del Centro-Nord dell'Italia.
Il record degli abbandoni spetta, recita il dossier, alla Campania (-160 mila), poi ci sono Puglia e Sicilia (-73 mila), mentre le regioni che hanno accolto il numero maggiore di migranti interni sono Lombardia (+102 mila), Emilia Romagna (+82 mila), Lazio (+51 mila) e Toscana (+54 mila).
Cospicuo è anche il pendolarismo nello Stivale, se si considera che, nel 2016, soltanto il 54,1% dei lavoratori (specie chi opera nei 13 maggiori centri urbani) ha avuto «il privilegio» di svolgere l'attività nel comune di residenza. Nei grandi agglomerati la quota di occupati residenti, che non deve spostarsi per portare avanti i propri incarichi sale all'86,7%, mentre nelle restanti aree la maggioranza dei residenti (52,1%) lavora altrove.
Le percentuali più significative della capacità di alcune grandi città di non far scappare i propri abitanti si riscontrano a Genova, Roma e Palermo, metropoli in cui, lo scorso anno, i lavoratori con residenza oltrepassavano il 90%.
Quella scattata dal rapporto è la «fotografia inquietante» di un Paese, il nostro, che «non attrae» è stato il commento del presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro Rosario De Luca.
Ma il nostro Paese, nel periodo 2008-2016, ha perso appeal anche per gli stranieri, prevalentemente provenienti dall'Est europeo (in particolare romeni, polacchi, ucraini e moldavi), visto che quasi 300 mila (con regolare permesso di soggiorno) si sono diretti in altri Stati dell'Ue, o sono ritornati a casa. È il panorama raffigurato dall'Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, nel Rapporto sulla mobilità occupazionale, presentato a Roma.
Mettendo sotto la lente d'ingrandimento la fuga dei cervelli (ad aver fatto le valigie, spiegano i professionisti, è stata soprattutto una platea laureata, «altamente qualificata» e che può vantare un «elevato grado di specializzazione»), si scopre che nel 2015 la meta più ambita è stata la Germania, dove in 20 mila hanno spostato la residenza; a seguire, «in forte crescita», la Gran Bretagna non ancora orientata alla Brexit (19 mila) e, in terza posizione, la Francia (oltre 12 mila).
A risentire molto positivamente del cambio di scenario sono state le retribuzioni percepite, poiché si calcola che la differenza fra lo stipendio medio di chi lavora nella stessa provincia e di chi trova un impiego al di là dei nostri confini «supera i 500 euro (+43,8%)».
La perdurante carenza di valide occasioni di inserimento nel mercato, inoltre, ha incoraggiato il fenomeno dello spopolamento del Mezzogiorno: dal 2008 al 2015, infatti, come è possibile appurare contando i cambi di residenza, 383 mila persone sono andate via dalle regioni meridionali, approdando nelle aree del Centro-Nord dell'Italia.
Il record degli abbandoni spetta, recita il dossier, alla Campania (-160 mila), poi ci sono Puglia e Sicilia (-73 mila), mentre le regioni che hanno accolto il numero maggiore di migranti interni sono Lombardia (+102 mila), Emilia Romagna (+82 mila), Lazio (+51 mila) e Toscana (+54 mila).
Cospicuo è anche il pendolarismo nello Stivale, se si considera che, nel 2016, soltanto il 54,1% dei lavoratori (specie chi opera nei 13 maggiori centri urbani) ha avuto «il privilegio» di svolgere l'attività nel comune di residenza. Nei grandi agglomerati la quota di occupati residenti, che non deve spostarsi per portare avanti i propri incarichi sale all'86,7%, mentre nelle restanti aree la maggioranza dei residenti (52,1%) lavora altrove.
Le percentuali più significative della capacità di alcune grandi città di non far scappare i propri abitanti si riscontrano a Genova, Roma e Palermo, metropoli in cui, lo scorso anno, i lavoratori con residenza oltrepassavano il 90%.
Quella scattata dal rapporto è la «fotografia inquietante» di un Paese, il nostro, che «non attrae» è stato il commento del presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro Rosario De Luca.