Luca Abete ai giovani: «Stop a offese e insulti è ora di amarci di più»
L’inviato di “Striscia la notizia” ospite alla d’Annunzio «Gli adulti sottovalutano bisogni e difficoltà dei ragazzi»
PESCARA. Ascoltare le fragilità e le insicurezze dei giovani, e valorizzare, soprattutto, le storie di ognuno di loro. Ma c’è molto di più dietro il tour motivazionale di Luca Abete, il popolare inviato di “Striscia la notizia”, che stamattina, alle 10, farà tappa nell’aula 31 dell’università d’Annunzio, in viale Pindaro. Abete parlerà alle nuove generazioni festeggiando così la decima edizione della campagna sociale #Non ci ferma nessuno che, da nord a sud, ha visto già la partecipazione di migliaia di studenti. Lo slogan di oggi è “Impariamo ad amarci”: un motto che vuole spingere le nuove generazioni ad apprezzarsi, accettarsi e farsi valere. Ognuno, con i propri pregi e anche con i propri difetti, è unico. Basta, insomma, puntare al successo, alla competizione del migliore della classe: con il tour di Abete gli studenti e le studentesse «imparano ad amarsi». Oggi, in aula sarà presente anche il rettore della d’Annunzio Liborio Stuppia.
Luca Abete, torna in Abruzzo e a Pescara dopo un anno: è pronto a questa tappa?
«Sì, l’università d’Annunzio, è stata sempre uno dei nostri punti fissi nel nostro girovagare per l’Italia. In questo tour, che arriva alla decima edizione, abbiamo fatto molte tappe. Qui torno volentieri: ho tanti amici, tanti professori amici, un ex rettore amico e un nuovo rettore davvero molto accogliente. E poi, si mangia alla grande. Queste sono le conferme di quanto sia bello girare l’Italia con questo tour che aggrega non soltanto numericamente tante persone, ma aggrega anche tanti animi, tanta voglia di condividere i valori di questa campagna sociale che a Pescara trova veramente un terreno molto fertile».
Dice bene, un territorio molto fertile: a distanza dalla sua ultima visita a Pescara, sono successi davvero tanti fatti di cronaca, belli e purtroppo anche brutti. L’ultimo è il caso Crox. Trova una città diversa?
«I fatti di cronaca scuotono e accendono delle luci che non erano fulminate, erano soltanto state spente per convenienza. Si fa finta di non vedere il disagio, si giudicano i ragazzi senza conoscerli, si creano delle barriere e si aumentano le distanze. Questa campagna sociale ha proprio questo obiettivo: accorciare le distanze tra i ragazzi, i loro problemi e le possibili soluzioni tra i ragazzi stessi, tra persone di diverse generazioni. Perché non esiste un mondo in cui gli adulti possono vivere lontano dai ragazzi. Tanto vale anche per i giovani che dovrebbero probabilmente attingere di più al mondo degli adulti».
Sempre più giovani si avvicinano all’esempio dei criminali, infatuati dalle serie tv. Poi, diventano i protagonisti di casi di cronaca. C’è qualcosa che sbagliamo noi adulti?
«I ragazzi sono soltanto il terminale di un percorso che è uscito un po’ fuori dai binari. Non voglio andare a pescare storie dalle serie tv o altro, ma in questi giorni si parla tanto di dissing e a farlo sono protagonisti della scena italiana che hanno contratti milionari con le case discografiche, che hanno spazi enormi nella tv di Stato. E allora se noi portiamo avanti, nella tv di Stato, sui giornali, nelle radio e ovunque, la cultura del dissing, non possiamo che non sorprenderci quando poi si arriva a scontri violenti».
E come bisogna intervenire?
«Alla cultura del dissing rispondiamo: Non ci ferma nessuno, impariamo ad amarci. Questo è il claim di questa edizione, che è proprio il contrario di quello che stiamo vivendo in tutti i nostri giorni. Dovremmo fare più attenzione intorno a un tema del genere, ma probabilmente chi dirige queste linee strategiche preferisce che si parli di odio, violenza, scontri, anziché di amore come facciamo noi».
E cosa vuol dire “Non ci ferma nessuno”?
«Vogliamo fare in modo che questo #Non ci ferma nessuno così virtuale, possa diventare qualcosa di concreto nelle vite di ognuno».
Da ragazzino avrebbe voluto sentire le parole che dice adesso ai giovanissimi?
«Sì, sicuramente i dieci anni di questo tour ci hanno fatto capire come noi eravamo diversi. Quando noi eravamo ragazzini non esisteva qualcosa del genere: c’era una sensibilità diversa. Le stesse università non avevano percezione di che cosa potesse essere un percorso mentale e sociale che c’è alla base di questa campagna. Cerco di arrivare nelle università non come Luca Abete della televisione, ma come Luca oggi 50enne, ma che non dimentica di essere stato un ragazzo come loro. Voglio ascoltare i giovani e creare uno scambio, io sono soltanto un po’ il collante di tante storie che nascono tra i ragazzi».
Cosa ci aspettiamo oggi in università?
«Oggi sarà un talk vero e proprio in cui si parla non di successo da raggiungere ad ogni costo, non di voti migliori che sono indispensabili per l’affermazione di se stessi. Parliamo solo ed esclusivamente di momenti difficili: io racconto i miei, i ragazzi trovano così il coraggio di raccontare loro e diventa uno scambio di esperienze che ha un potere terapeutico formidabile, perché molti ragazzi vivono la sensazione sbagliata di essere soli. Ecco, io dico sempre che si tratta di una solitudine percepita, che poi non è reale, perché i ragazzi in aula dicono di sentirsi soli. Poi quando sentono le storie degli altri, quando sentono raccontare dei momenti che sono diversi, ma che fanno tutti capo a uno stesso malessere, si ritrovano meno soli, più uniti, più vicini. Il progetto è proprio questo: accorciare le distanze tra i loro problemi e provare in qualche maniera a far vedere ai ragazzi traiettorie da percorrere, anziché barriere che bloccano il loro cammino».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Luca Abete, torna in Abruzzo e a Pescara dopo un anno: è pronto a questa tappa?
«Sì, l’università d’Annunzio, è stata sempre uno dei nostri punti fissi nel nostro girovagare per l’Italia. In questo tour, che arriva alla decima edizione, abbiamo fatto molte tappe. Qui torno volentieri: ho tanti amici, tanti professori amici, un ex rettore amico e un nuovo rettore davvero molto accogliente. E poi, si mangia alla grande. Queste sono le conferme di quanto sia bello girare l’Italia con questo tour che aggrega non soltanto numericamente tante persone, ma aggrega anche tanti animi, tanta voglia di condividere i valori di questa campagna sociale che a Pescara trova veramente un terreno molto fertile».
Dice bene, un territorio molto fertile: a distanza dalla sua ultima visita a Pescara, sono successi davvero tanti fatti di cronaca, belli e purtroppo anche brutti. L’ultimo è il caso Crox. Trova una città diversa?
«I fatti di cronaca scuotono e accendono delle luci che non erano fulminate, erano soltanto state spente per convenienza. Si fa finta di non vedere il disagio, si giudicano i ragazzi senza conoscerli, si creano delle barriere e si aumentano le distanze. Questa campagna sociale ha proprio questo obiettivo: accorciare le distanze tra i ragazzi, i loro problemi e le possibili soluzioni tra i ragazzi stessi, tra persone di diverse generazioni. Perché non esiste un mondo in cui gli adulti possono vivere lontano dai ragazzi. Tanto vale anche per i giovani che dovrebbero probabilmente attingere di più al mondo degli adulti».
Sempre più giovani si avvicinano all’esempio dei criminali, infatuati dalle serie tv. Poi, diventano i protagonisti di casi di cronaca. C’è qualcosa che sbagliamo noi adulti?
«I ragazzi sono soltanto il terminale di un percorso che è uscito un po’ fuori dai binari. Non voglio andare a pescare storie dalle serie tv o altro, ma in questi giorni si parla tanto di dissing e a farlo sono protagonisti della scena italiana che hanno contratti milionari con le case discografiche, che hanno spazi enormi nella tv di Stato. E allora se noi portiamo avanti, nella tv di Stato, sui giornali, nelle radio e ovunque, la cultura del dissing, non possiamo che non sorprenderci quando poi si arriva a scontri violenti».
E come bisogna intervenire?
«Alla cultura del dissing rispondiamo: Non ci ferma nessuno, impariamo ad amarci. Questo è il claim di questa edizione, che è proprio il contrario di quello che stiamo vivendo in tutti i nostri giorni. Dovremmo fare più attenzione intorno a un tema del genere, ma probabilmente chi dirige queste linee strategiche preferisce che si parli di odio, violenza, scontri, anziché di amore come facciamo noi».
E cosa vuol dire “Non ci ferma nessuno”?
«Vogliamo fare in modo che questo #Non ci ferma nessuno così virtuale, possa diventare qualcosa di concreto nelle vite di ognuno».
Da ragazzino avrebbe voluto sentire le parole che dice adesso ai giovanissimi?
«Sì, sicuramente i dieci anni di questo tour ci hanno fatto capire come noi eravamo diversi. Quando noi eravamo ragazzini non esisteva qualcosa del genere: c’era una sensibilità diversa. Le stesse università non avevano percezione di che cosa potesse essere un percorso mentale e sociale che c’è alla base di questa campagna. Cerco di arrivare nelle università non come Luca Abete della televisione, ma come Luca oggi 50enne, ma che non dimentica di essere stato un ragazzo come loro. Voglio ascoltare i giovani e creare uno scambio, io sono soltanto un po’ il collante di tante storie che nascono tra i ragazzi».
Cosa ci aspettiamo oggi in università?
«Oggi sarà un talk vero e proprio in cui si parla non di successo da raggiungere ad ogni costo, non di voti migliori che sono indispensabili per l’affermazione di se stessi. Parliamo solo ed esclusivamente di momenti difficili: io racconto i miei, i ragazzi trovano così il coraggio di raccontare loro e diventa uno scambio di esperienze che ha un potere terapeutico formidabile, perché molti ragazzi vivono la sensazione sbagliata di essere soli. Ecco, io dico sempre che si tratta di una solitudine percepita, che poi non è reale, perché i ragazzi in aula dicono di sentirsi soli. Poi quando sentono le storie degli altri, quando sentono raccontare dei momenti che sono diversi, ma che fanno tutti capo a uno stesso malessere, si ritrovano meno soli, più uniti, più vicini. Il progetto è proprio questo: accorciare le distanze tra i loro problemi e provare in qualche maniera a far vedere ai ragazzi traiettorie da percorrere, anziché barriere che bloccano il loro cammino».
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