"Noi, alpini d’Abruzzo in missione di pace nell’inferno di Farah"
Parla il colonnello Riccardo Cristoni, comandante del 9° reggimento dell’Aquila di stanza in Afghanistan
Il Colonnello Riccardo Cristoni è nato a Sarzana nel 1965. Si è arruolato nell'Esercito nel settembre del 1984 con l'ammissione all'Accademia Militare di Modena e successivamente ha frequentato la Scuola di applicazione di Torino e la Scuola di Guerra di Civitavecchia e l'Istituto superiore di Stato maggiore interforze. E' laureato in Scienze Strategiche presso l'Università di Torino ed in possesso di Master in Studi Internazionali Strategico-militari. E’ stato portavoce di molte missioni Nato all’estero. Nel settembre 2011 ha assunto il comando del 9° reggimento alpini in L'Aquila.
di MAURO TEDESCHINI
Colonnello Cristoni, in che cosa consiste esattamente il ruolo del reggimento alpini dell’Aquila?
«Il 9° reggimento alpini costituisce il cuore della Task Force South e siamo dislocati nella base avanzata di Farah nell'ovest dell'Afghanistan. La Task Force è un unità mista in cui sono presenti non solo alpini, ma anche bersaglieri, esperti del genio e delle trasmissioni e carabinieri. Il nostro compito in questa fase della missione è quello di supportare la polizia e l'esercito afgano per riprendersi il controllo del paese e divenire gli attori principali della sicurezza. Dopo trent’anni di guerra e oltre dieci di missione internazionale è giunta l'ora che siano protagonisti del proprio futuro».
Come sono i rapporti con la popolazione locale?
«Sicuramente buoni. I militari italiani hanno saputo anche qui, come in altre missioni, trovare il modo di farsi accettare, basando il nostro approccio sul rispetto della cultura, delle tradizioni e della religione. Nelle nostre visite ai villaggi e negli incontri con la popolazione siamo riusciti sempre a creare empatia e a far comprendere le ragioni della nostra presenza. E' qualcosa che abbiamo maturato con tante missioni all'estero, questa è la quinta in Afghanistan, ma è anche una questione di DNA, radicato nella nostra stessa storia. Questo ci viene riconosciuto da tutti, in particolar modo dagli alleati che operano con noi in questa missione, un "Italian way" di cui siamo molto orgogliosi».
Quali le maggiori insidie sul piano della sicurezza? E quale l'atteggiamento degli alpini in presenza di ordigni improvvisati?
Sicuramente gli ordigni esplosivi improvvisati, i famigerati IED (improvised explosive disposal), che vengono piazzati sulle principali vie di comunicazione, ma anche nei villaggi e colpiscono tutti in modo indiscriminato, militari e civili. Ci ha molto colpito un incidente avvenuto qualche settimana fa nella città di Farah, dove spesso passiamo, in cui sei bambini sono rimasti coinvolti da un esplosione di un ordigno improvvisato che avevano trovato sotto un ponticello, credendo fosse un gioco. Tre di loro sono morti sul colpo. I nostri alpini hanno un atteggiamento molto cauto, frutto di un lunga e dura preparazione durata sei mesi in cui abbiamo passato intere settimane a provare le tecniche e le procedure su come affrontare questa vile minaccia. Non bisogna mai abbassare la guardia e sino ad ora l'addestramento ha dato buoni frutti, siamo saltati due volte e nessuno è rimasto ferito. Forse in tal senso il nostro pellegrinaggio a San Gabriele è stato propizio».
Quale riscontro ha, sul campo, la validità dell'addestramento effettuato in Abruzzo?
«Il riscontro è stato immediato e assolutamente positivo, grazie anche al fatto che per conformazione la zona di Monte Stabiata, dove ci siamo addestrati a lungo, è molto simile alla zona dove operiamo. Gli alpini abruzzesi hanno dimostrato di saper reagire ad ogni situazione, dal fronteggiare un'improvvisa minaccia a quella di assistere i colleghi feriti dell'esercito afgano e provvedere al loro trasporto con gli elicotteri. Aver potuto addestrarci vicino alla caserma Rossi dove è dislocato il reggimento ci ha permesso di concentrare i nostri sforzi. Abbiamo simulato tutte le situazioni possibili, da quelle della reazione ad un attacco, all'utilizzo degli elicotteri, a come si organizza un incontro con il capo di un villaggio e persino alle difficoltà di usare un interprete per contattare la popolazione e parlare con i colleghi afgani. In addestramento avevamo, con una felice intuizione, sperimentato anche queste difficoltà utilizzando due alpini di Piana degli Albanesi il cui dialetto era per tutti noi incomprensibile».
Quanti alpini abruzzesi sono attualmente presenti nel vostro contingente?
«Il reggimento ha una profonda radice abruzzese, circa il 42 % degli alpini e alpine sono di origine abruzzese. Qui, con me a Farah, ci sono circa 150 abruzzesi. Ma non ci sentiamo soli, perché abbiamo la Bandiera della città che sventolava su palazzo Margherita la notte del terremoto. Un dono del Sindaco Cialente e un segno di grande affetto che ci fa sentire la vicinanza tutta i cittadini aquilani. Oltre a quello però abbiamo anche una maglietta della squadra dell'Aquila Calcio, con cui il reggimento è gemellata, con le firme di tutti i calciatori che ci è stata consegnata poco prima della partenza per questa missione. Con tutto questo L'Aquila è qui con noi».
Ci vuole raccontare il pellegrinaggio a San Gabriele?
«Sì, è vero, prima ho citato San Gabriele, perché lo scorso luglio tutto il reggimento, con il testa la nostra Bandiera di Guerra, si è recato in marcia di pellegrinaggio attraverso il Gran Sasso fino al Santuario di San Gabriele, rievocando una tradizione dei militari abruzzesi che si recavano dal Santo prima di partire per la guerra. Guardi io non sono abruzzese, ma sono rimasto colpito da questo attaccamento a San Gabriele soprattutto da parte degli alpini abruzzesi e ho voluto rinnovare questa tradizione prima della missione in Afghanistan. La risposta e la partecipazione è stata fenomenale, tutti sono arrivati al Santuario per poi partecipare alla messa con la benedizione della nostra Bandiera e dei gagliardetti con in testa il nostro cappello alpino».