Omicidio Albi: la pistola usata è quella della rapina a Cepagatti
La perizia balistica collega definitivamente gli episodi della scorsa estate avvenuti nel giro di 20 giorni Ma sull’arma non sono state trovate tracce genetiche di Nobile, il presunto killer che partecipò al colpo
PESCARA. I colpi che il primo agosto scorso, nel bar del Parco, hanno ucciso l’architetto pescarese Walter Albi e ferito gravemente l’ex calciatore Luca Cavallito, sono partiti dalla pistola che venne sottratta alla guardia giurata durante la rapina al Centro Agroalimentare di Cepagatti l’11 luglio 2022, qualche giorno prima dell’agguato omicida. Lo ha stabilito con certezza la perizia balistica voluta dai magistrati che seguono l’inchiesta (il procuratore Giuseppe Bellelli, l’aggiunto Anna Rita Mantini e il sostituto Andrea Di Giovanni), che nel febbraio scorso fecero scattare le manette per Mimmo Nobile e Natale Ursino, considerati rispettivamente il presunto killer e il mandante dell’omicidio.
LA STESSA PISTOLA Un passaggio che diventa fondamentale per gli inquirenti che continuano ad acquisire elementi a supporto della loro tesi, nonostante il colpo di scena arrivato dai giudici aquilani del riesame che nel marzo scorso hanno deciso di annullare l’ordinanza di misura cautelare firmata dal gip pescarese Giovanni de Rensis ritenendola, solo per il calabrese Ursino, uomo di ’ndrangheta, «in parte carente e in parte contraddittoria, affetta da incongruenze di carattere logico allo stato insuperabili», facendo così tornare in libertà il presunto mandante del delitto Albi.
LA CONFESSIONE Il perché dell’importanza di questo accertamento tecnico deriva dal fatto che quella rapina al Centro Agroalimentare, stando alla confessione di uno dei quattro partecipanti, venne materialmente compiuta da Mimmo Nobile e Maurizio Longo, con l’apporto logistico di Fabio Iervese e Renato Mancini, quest’ultimo il reo confesso che disse anche altro al pm Luca Sciarretta titolare dell’inchiesta che corre in parallelo e si interseca con l’omicidio. E cioè, disse che quando, subito dopo il colpo, si ritrovarono in un appartamento in zona stadio per dividersi il bottino di circa 30 mila euro, quella pistola la prese, appunto, Nobile. «Disse “questa mi serve” e se l’è presa”, riferisce Mancini al pm, mettendo così un punto fermo su quell’arma, anche se si parla pur sempre di una chiamata in correità da parte di uno dei rapinatori.
IL RITROVAMENTO Sta di fatto che quella stessa arma i carabinieri la ritrovarono, o meglio, il solo castello di quella pistola, in una zona impervia nelle campagne di via Del Pantano: insieme all’arma vennero ritrovati anche lo scooter utilizzato per l’omicidio, un casco, un paio di scarpe e il caricatore della pistola alla quale mancava la canna. Ma gli esperti, pur avendo a disposizione il solo castello, sarebbero riusciti a stabilire che quella è l’arma dalla quale vennero esplosi gli otto colpi che uccisero Albi e ferirono gravemente Cavallito.
Niente RISCONTRi GENETICi Va però detto che dall’esame del Dna su quei reperti, non emerse nessun riscontro genetico riferibile a Nobile e neppure a Mancini e Iervese: vennero invece ritrovate tracce genetiche di tre soggetti ignoti.
IL RICONOSCIMENTO Quella pistola, calibro 9,21, resta comunque un tassello di prioritaria importanza per la procura per mettere in collegamento Nobile, autore della rapina nella quale venne presa la pistola alla guardia giurata, con l’omicidio, visto che, secondo quanto accertato, l’arma che ha sparato è la stessa. A tutto questo, si associa poi il fatto che Cavallito, appena si è ripreso dai vari interventi chirurgici, ha detto con certezza agli inquirenti che a sparare fu Nobile: «Riconobbi la sua voce quando, prima di spararmi ancora disse, “questo è per te e per gli infami come te”». È vero che si tratta solo di un riconoscimento vocale, ma a sostegno della tesi accusatoria c’è anche più di un passaggio del provvedimento dei giudici del riesame che, in maniera molto netta, hanno sì “scagionato” Ursino dall’accusa di essere il mandante, ma hanno anche ribadito il ruolo di Nobile. «Corrobora», scrivono i giudici aquilani, «tale convincimento (quello della estraneità di Ursino ndr) la stessa dinamica omicidaria, laddove si consideri che Nobile, mentre esplodeva i colpi, ha pronunciato delle frasi ingiuriose verso le vittime, ciò che si sposa con l’azione di una persona mossa da personale animosità, ma non quella di una persona mandata da altri a svolgere un’operazione asettica per proprio conto».
PROCURA AL LAVORO A parte le valutazioni su quel provvedimento del riesame, passato al microscopio dalla procura e che avrà un seguito, resta la convinzione dei giudici sul fatto che «l’azione di Nobile si è innescata, verosimilmente in modo autonomo». Nobile, da quanto riferito da Cavallito e confermato da altri testi, aveva un debito di 150 mila euro con Cavallito, dal quale era stato peraltro «offeso», e per questo tra i due c’era un forte rancore, ma anche un debito con Ursino. Insomma, la procura sta lavorando per mettere insieme altri elementi d’accusa che potrebbero sfociare anche in una nuova misura cautelare per il calabrese che avrebbe fatto pagare ai due delle “leggerezze” che non sono ammesse fra gli uomini di 'ndrangheta.
LA STESSA PISTOLA Un passaggio che diventa fondamentale per gli inquirenti che continuano ad acquisire elementi a supporto della loro tesi, nonostante il colpo di scena arrivato dai giudici aquilani del riesame che nel marzo scorso hanno deciso di annullare l’ordinanza di misura cautelare firmata dal gip pescarese Giovanni de Rensis ritenendola, solo per il calabrese Ursino, uomo di ’ndrangheta, «in parte carente e in parte contraddittoria, affetta da incongruenze di carattere logico allo stato insuperabili», facendo così tornare in libertà il presunto mandante del delitto Albi.
LA CONFESSIONE Il perché dell’importanza di questo accertamento tecnico deriva dal fatto che quella rapina al Centro Agroalimentare, stando alla confessione di uno dei quattro partecipanti, venne materialmente compiuta da Mimmo Nobile e Maurizio Longo, con l’apporto logistico di Fabio Iervese e Renato Mancini, quest’ultimo il reo confesso che disse anche altro al pm Luca Sciarretta titolare dell’inchiesta che corre in parallelo e si interseca con l’omicidio. E cioè, disse che quando, subito dopo il colpo, si ritrovarono in un appartamento in zona stadio per dividersi il bottino di circa 30 mila euro, quella pistola la prese, appunto, Nobile. «Disse “questa mi serve” e se l’è presa”, riferisce Mancini al pm, mettendo così un punto fermo su quell’arma, anche se si parla pur sempre di una chiamata in correità da parte di uno dei rapinatori.
IL RITROVAMENTO Sta di fatto che quella stessa arma i carabinieri la ritrovarono, o meglio, il solo castello di quella pistola, in una zona impervia nelle campagne di via Del Pantano: insieme all’arma vennero ritrovati anche lo scooter utilizzato per l’omicidio, un casco, un paio di scarpe e il caricatore della pistola alla quale mancava la canna. Ma gli esperti, pur avendo a disposizione il solo castello, sarebbero riusciti a stabilire che quella è l’arma dalla quale vennero esplosi gli otto colpi che uccisero Albi e ferirono gravemente Cavallito.
Niente RISCONTRi GENETICi Va però detto che dall’esame del Dna su quei reperti, non emerse nessun riscontro genetico riferibile a Nobile e neppure a Mancini e Iervese: vennero invece ritrovate tracce genetiche di tre soggetti ignoti.
IL RICONOSCIMENTO Quella pistola, calibro 9,21, resta comunque un tassello di prioritaria importanza per la procura per mettere in collegamento Nobile, autore della rapina nella quale venne presa la pistola alla guardia giurata, con l’omicidio, visto che, secondo quanto accertato, l’arma che ha sparato è la stessa. A tutto questo, si associa poi il fatto che Cavallito, appena si è ripreso dai vari interventi chirurgici, ha detto con certezza agli inquirenti che a sparare fu Nobile: «Riconobbi la sua voce quando, prima di spararmi ancora disse, “questo è per te e per gli infami come te”». È vero che si tratta solo di un riconoscimento vocale, ma a sostegno della tesi accusatoria c’è anche più di un passaggio del provvedimento dei giudici del riesame che, in maniera molto netta, hanno sì “scagionato” Ursino dall’accusa di essere il mandante, ma hanno anche ribadito il ruolo di Nobile. «Corrobora», scrivono i giudici aquilani, «tale convincimento (quello della estraneità di Ursino ndr) la stessa dinamica omicidaria, laddove si consideri che Nobile, mentre esplodeva i colpi, ha pronunciato delle frasi ingiuriose verso le vittime, ciò che si sposa con l’azione di una persona mossa da personale animosità, ma non quella di una persona mandata da altri a svolgere un’operazione asettica per proprio conto».
PROCURA AL LAVORO A parte le valutazioni su quel provvedimento del riesame, passato al microscopio dalla procura e che avrà un seguito, resta la convinzione dei giudici sul fatto che «l’azione di Nobile si è innescata, verosimilmente in modo autonomo». Nobile, da quanto riferito da Cavallito e confermato da altri testi, aveva un debito di 150 mila euro con Cavallito, dal quale era stato peraltro «offeso», e per questo tra i due c’era un forte rancore, ma anche un debito con Ursino. Insomma, la procura sta lavorando per mettere insieme altri elementi d’accusa che potrebbero sfociare anche in una nuova misura cautelare per il calabrese che avrebbe fatto pagare ai due delle “leggerezze” che non sono ammesse fra gli uomini di 'ndrangheta.