Operaio pagato per stare a casa
Licenziato dalla Ceteas e reintegrato dal giudice, da 5 anni si batte per tornare al lavoro
MONTESILVANO. Licenziato, reintegrato su ordine del giudice e regolarmente pagato. Ma per stare a casa.
La vicenda di Antonio D'Addario, 56 anni, operaio specializzato nella manutenzione e riparazione di carrelli elevatori, ha molti punti in comune con la storia dei tre dipendenti dello stabilimento Fiat di Melfi arrivata questa estate alla ribalta delle cronache nazionali. Il copione è lo stesso, ma il palcoscenico è diverso. All'azienda Ceteas di Montesilvano, a oltre 250 chilometri dalla provincia di Potenza, si ripete la logica denunciata dagli operai della Fiom, il sindacato delle tute blu della Cgil. La società del gruppo Di Cosimo che da un trentennio opera nel mercato della vendita, manutenzione e noleggio di carrelli elevatori, nel 2006 decide di allontanare dallo stabilimento quattro persone a causa di una riduzione del personale. Antonio D'Addario e i colleghi Vincenzo Caduceo, Paride Martella e Ruben Gimenez decidono di presentare ricorso contro un licenziamento avvenuto «non per giusta causa».
In primo grado, nel giugno 2009, il giudice dà ragione solo a D'Addario e per il reintegro degli altri tre operai bisognerà attendere la sentenza di appello, a metà settembre 2010, quando i tre comunque decidono di prendere strade diverse e andare via dall'azienda. Nonostante il parere della magistratura, i cancelli della Ceteas di Montesilvano rimangono invece chiusi per il 56enne di Montesilvano iscritto alla Fiom che a cinque anni dal licenziamento continua a rivendicare il proprio diritto al lavoro.
«Dopo il reintegro, mi sono presentato fiducioso in azienda», racconta l'operaio a denti stretti, «inizialmente sono stato mandato in ferie per 15 giorni e, alla scadenza delle vacanze forzate, mi hanno trasferito alla sede di Ascoli. Tutto a mie spese, senza rimborsi né il pagamento delle trasferte. Ho dovuto accettare, ma una volta lì ho presentato un nuovo ricorso». L'obbligo di reintegra nello stabilimento di Montesilvano arriva nove mesi dopo, ma la Ceteas rifiuta di ottemperare una sentenza «immediatamente esecutiva» e preferisce tenere a casa l'operaio, pur pagandogli regolarmente lo stipendio.
È trascorso quasi un anno dal marzo 2010. Antonio D'Addario non ha smesso un attimo di combattere per i propri diritti. Al volantinaggio serrato ai cancelli dell'azienda, con la distribuzione delle fotocopie della sentenza di reintegro di 40 pagine, alterna richieste di assemblee sindacali a cui la società risponde prontamente che «presso la nostra azienda non è costituita una rappresentanza sindacale». Il suo grido d'aiuto è lo stesso lanciato dagli operai di Melfi, costretti a stare a casa su disposizione dell'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne: «Dov'è finita la mia dignità di lavoratore?», si chiede D'Addario, «lo stipendio vorrei guadagnarmelo con il sudore della fronte. Avrei preferito perdere il processo e aver vinto una rendita al Gratta e vinci».
La vicenda di Antonio D'Addario, 56 anni, operaio specializzato nella manutenzione e riparazione di carrelli elevatori, ha molti punti in comune con la storia dei tre dipendenti dello stabilimento Fiat di Melfi arrivata questa estate alla ribalta delle cronache nazionali. Il copione è lo stesso, ma il palcoscenico è diverso. All'azienda Ceteas di Montesilvano, a oltre 250 chilometri dalla provincia di Potenza, si ripete la logica denunciata dagli operai della Fiom, il sindacato delle tute blu della Cgil. La società del gruppo Di Cosimo che da un trentennio opera nel mercato della vendita, manutenzione e noleggio di carrelli elevatori, nel 2006 decide di allontanare dallo stabilimento quattro persone a causa di una riduzione del personale. Antonio D'Addario e i colleghi Vincenzo Caduceo, Paride Martella e Ruben Gimenez decidono di presentare ricorso contro un licenziamento avvenuto «non per giusta causa».
In primo grado, nel giugno 2009, il giudice dà ragione solo a D'Addario e per il reintegro degli altri tre operai bisognerà attendere la sentenza di appello, a metà settembre 2010, quando i tre comunque decidono di prendere strade diverse e andare via dall'azienda. Nonostante il parere della magistratura, i cancelli della Ceteas di Montesilvano rimangono invece chiusi per il 56enne di Montesilvano iscritto alla Fiom che a cinque anni dal licenziamento continua a rivendicare il proprio diritto al lavoro.
«Dopo il reintegro, mi sono presentato fiducioso in azienda», racconta l'operaio a denti stretti, «inizialmente sono stato mandato in ferie per 15 giorni e, alla scadenza delle vacanze forzate, mi hanno trasferito alla sede di Ascoli. Tutto a mie spese, senza rimborsi né il pagamento delle trasferte. Ho dovuto accettare, ma una volta lì ho presentato un nuovo ricorso». L'obbligo di reintegra nello stabilimento di Montesilvano arriva nove mesi dopo, ma la Ceteas rifiuta di ottemperare una sentenza «immediatamente esecutiva» e preferisce tenere a casa l'operaio, pur pagandogli regolarmente lo stipendio.
È trascorso quasi un anno dal marzo 2010. Antonio D'Addario non ha smesso un attimo di combattere per i propri diritti. Al volantinaggio serrato ai cancelli dell'azienda, con la distribuzione delle fotocopie della sentenza di reintegro di 40 pagine, alterna richieste di assemblee sindacali a cui la società risponde prontamente che «presso la nostra azienda non è costituita una rappresentanza sindacale». Il suo grido d'aiuto è lo stesso lanciato dagli operai di Melfi, costretti a stare a casa su disposizione dell'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne: «Dov'è finita la mia dignità di lavoratore?», si chiede D'Addario, «lo stipendio vorrei guadagnarmelo con il sudore della fronte. Avrei preferito perdere il processo e aver vinto una rendita al Gratta e vinci».
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