Pescara, il padre di Rigante: "Ora i Ciarelli devono pagare"

Il padre di Domenico dopo le intercettazioni dei 5 Ciarelli «Arroganti e vigliacchi, si prendano le loro responsabilità»

PESCARA. «Non fanno male le parole. Fa male l’arroganza, tutta quella superbia. Ma io lo vorrei proprio guardare negli occhi, quello là». Pasquale Rigante esce a fatica dal silenzio in cui ha scelto di stare da quando, la sera del primo maggio, un commando rom gli ha ammazzato il figlio Domenico, 24 anni e papà di una bimba che oggi ha 14 mesi.

Senza mai chiamare per nome Massimo Ciarelli, dal 5 maggio in carcere per l’omicidio di suo figlio, Pasquale parla tutto d’un fiato, dopo aver letto le intercettazioni pubblicate ieri dal Centro in cui Massimo e i suoi quattro presunti complici lo scorso 29 giugno vengono portati dal carcere alla questura per l’incidente probatorio e, per la prima volta insieme dopo quella sciagurata notte, parlano tra loro, si accusano a vicenda e tentano di mettersi d’accordo. «A questo punto è tutto contro di loro», dice Pasquale che quasi si rammarica di non aver incrociato lui, quella mattina del 29 giugno, Massimo Ciarelli mentre veniva portato in Questura per il riconoscimento all’americana con i testimoni. «Io ero già dentro. Invece c’era mia moglie lì fuori ed è a lei che si è permesso di dire “ho ammazzato tuo figlio, qual è il problema?” Il problema», va avanti Pasquale, «è che lui è tanto arrogante quanto vigliacco. Perché se ha ammazzato mio figlio come lui stesso dice con tanta superbia, allora se ne assumesse le responsabilità davanti a chi di dovere, invece di continuare a fare la vittima insieme al resto della combriccola. Perché in questa storia non c’è solo l’assassino che ha sparato a mio figlio. Quella sera in via Polacchi c’erano anche gli altri che lo hanno fatto soffrire come un cane prima che venisse ammazzato. L’ho visto io, quella notte, com’era ridotto Domenico. E ho visto quella casa, quello che avevano combinato quando sono piombati là dentro con le pistole. Lui e quegli altri finiti in carcere».

Per questo, a Pasquale, poco importa alla fine quello che dicono i cinque Ciarelli: «Per me le loro parole sono vuote come l’aria. Quello che m’interessa è che paghino fino alla fine quello che devono pagare. E non solo per l’omicidio, ma anche per il tentato omicidio nei confronti dell’altro figlio Antonio e del ragazzo che hanno inseguito con le pistole fin dentro la casa di via Polacchi. E invece ci dobbiamo sentire anche le loro infamie. Come quella che Antonio aveva un debito con loro. Ma quando? Antonio e Domenico proprio non li volevano sentire, i rom. Anzi, Domenico mi diceva sempre che erano dei prepotenti, che quando passavano loro in corso Manthonè la gente si scansava. I miei figli no, non si scansavano. E loro sono andati a fermarli con le pistole. Per uccidere». Ma, dice Pasquale: «Ancora non ho il coraggio di guardare le foto dell’autopsia, non ho ancora il coraggio di vedere che cosa hanno fatto davvero, quella sera, a mio figlio». Con il dolore che lo mette ogni giorno, alla prova, Pasquale ha imparato a convivere nella memoria del figlio, ma soprattutto per la nipotina Angelica: «A me e a mia moglie hanno tolto un figlio, ad Antonio e a Francesco un fratello, ma a lei hanno tolto il padre quando non aveva ancora otto mesi».

Ma per un passato che non si può cambiare, c’è un futuro ancora da scrivere. «Ora tutto dipende dal processo, da quello che succederà», va avanti Pasquale. «La legge consente loro di scegliere come farsi processare, io spero che decidano in fretta. E anche se per il processo in Corte d’Assise ci vorrà di più, non mi dispiacerebbe che fosse quello, un processo pubblico. Un processo che sia di lezione a tutta la città, a tutti coloro che pensano che ci si può fare giustizia da soli, per conto proprio, con una pistola, quando invece ci sonoancora d elle regole».

Parole che Pasquale non si stanca di ripetere, mentre quelle frasi tra Massimo, Angelo, Antonio e Luigi Ciarelli non smettono di rimbombargli nella testa e nel cuore. E lo colpiscono ancora di più quando il dialogo si sposta tra la madre di Massimo Ciarelli e il figlio, intercettati a metà maggio durante un incontro nel carcere di Vasto, quando lei dice a Massimo «è vero che anche Domenico e Antonio erano conte, ma chi ha sparato sei tu», e lui ammette «è vero che ho sparato». Le manda a dire Pasquale: «Se è vero come ho sempre sentito, che i rom sono molto religiosi, allora è arrivato il momento che questa madre convinca il figlio a prendersi le proprie responsabilità e a pagare. Per tutto il male che ha fatto».

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