Pescara, omicidio Pavone: «Voglio la verità su mio fratello ucciso»
Domani in Cassazione il processo a Gagliardi, condannato in appello a 19 anni. Parla Adele Pavone, sorella dell’ingegnere
PESCARA . Era il 30 ottobre del 2013, quando Carlo Pavone, ingegnere informatico di 43 anni, fu raggiunto alla testa dal proiettile calibro di un fucile Flaubert. Era nel cortile di casa, dove era sceso dopo cena per gettare la spazzatura. Per le ferite gravissime riportate l’uomo, padre di due bambini, morì un anno dopo senza aver mai ripreso conoscenza.
Per quella morte Vincenzo Gagliardi, 52 anni, impiegato postale di Chieti, fu condannato in primo grado a 30 anni di carcere, pena ridotta a 19 anni dalla Corte d’appello dell’Aquila, che non riconobbe l’aggravante della premeditazione. Come emerse nel corso del giudizio, l’uomo (che non ha mai confessato), aveva avuto una relazione con la moglie di Pavone, Raffaella D’Este, per la quale non fu disposto alcun risarcimento, al contrario di quanto avvenne per le altre parti civili.
Domani, la vicenda torna nelle aule giudiziarie, con l’udienza che sarà celebrata in corte di Cassazione, a Roma. E i parenti di Carlo, la sorella Adele e il fratello Rocco vogliono che sulla storia si faccia piena luce. «Mio fratello», dice Adele, rappresentata dagli avvocati Massimo Galasso e Marino Di Felice, «fu ucciso da un colpo sparato a una distanza tale da non lasciargli scampo. Aveva due bambini, e da quando lui è morto noi non abbiamo più visto i nostri nipoti». Il dolore mai sopito per la perdita di un familiare si riaffaccia sul volto di Adele e Rocco, che non riescono a capire come mai il appello sia caduta l’aggravante della premeditazione. «Adesso quell’uomo», dicono parlando di Gagliardi, «è a casa, agli arresti domiciliari, con il braccialetto elettronico. Carlo invece non c’è più, e aveva tutta la vita davanti. I miei genitori», aggiunge Adele, «sono morti di dolore».
Domani il processo riprende in Cassazione, e i familiari dell’ingegnere ucciso chiedono che vanga fatta giustizia. «Non siamo alla ricerca di vendette, non vogliamo accanimento, ma pretendiamo giustizia. Come si fa a non riconoscere la premeditazione», dicono, «quando è emerso in atti che Gagliardi aveva fatto ricerche su internet per capire la lesività del fucile Flaubert, la stessa arma usata per uccidere Carlo»?
Contro la sentenza della Corte d’appello lo stesso avvocato generale, Romolo Como, ha proposto ricorso in Cassazione, al quale si sono aggiunti anche i parenti dell’ingegnere ucciso.
«Comunque», concludono, «a prescindere da quella che sarà la decisione della Cassazione, restano l’amaro in bocca, il rammarico, perché non tutti gli spetti di questa vicenda sono stati chiariti». (a.bag.)
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