«Pochi i medici all’ospedale San Massimo»
Penne, la scrittrice Di Pietrantonio scrive al Centro ed elenca luci e ombre della struttura in base alla sua esperienza
All’ospedale di Penne, il mio paese, esiste un servizio di day hospital che da oltre trent’anni si occupa di patologie del fegato e gastrointestinali, seguendo i pazienti dalla diagnosi alla terapia, fino all’eventuale avvio al trapianto, grazie a un’attiva collaborazione con il Policlinico Gemelli di Roma. Chi vi accede viene assistito con una garanzia di continuità in tutte le fasi della malattia. Si applicano tecniche all’avanguardia, come la termoablazione dei tumori epatici mediante radiofrequenze ecoguidate.
L’alta professionalità e la specializzazione raggiunte da questo servizio sono tali che, oltre al suo naturale bacino di utenza calcolabile in 40.000 persone considerando tutta la fascia pedemontana del pescarese e parte del teramano, riceve pazienti da altre Asl.
Ultimo riconoscimento in ordine di tempo è l’idoneità all’insegnamento della specializzazione in Medicina interna e in Gastroenterologia. A novembre avremo gli specializzandi delle università di Chieti e L’Aquila nel nostro piccolo ospedale.
Da anni accompagno un mio familiare in questo Day hospital, posso dire di conoscerlo. Conosco i medici e le infermiere.
Mi è stato subito chiaro che non si limitano alla somministrazione di farmaci o interventi parcellizzati, ma sono guidati da un’idea più forte e generale: la cura come presa in carico della persona nella sua interezza e complessità. È ciò che chiediamo al sistema sanitario: essere curati per il tutto che siamo e non ridotti al nostro organo malato.
Quanti ricoveri si è risparmiato il mio parente, quanti andirivieni con l’ospedale di Pescara, così scomodo da raggiungere per un anziano che abita in una contrada servita da una strada provinciale indegna di un Paese civile. E che risparmio di spesa per le casse dello Stato, queste prestazioni di alto livello erogate in regime ambulatoriale.
Finora ho raccontato il bello della storia, ma attenzione, ora arriva la parte nera.
Questo servizio di eccellenza non è mai stato accreditato formalmente come meriterebbe, al contrario ha seguito il destino di un ospedale che, come tutti quelli delle aree interne, è stato negli anni progressivamente depauperato di risorse umane e strutturali, svilito, svuotato.
La Medicina è stata geriatrizzata, la pianificazione dall’alto sembra orientata a trasformare il San Massimo in un cronicario o in un ospizio.
Il Day hospital di cui sopra non ha una sua autonomia, sulla carta quasi non esiste. Qualunque dirigente della sanità locale potrebbe svegliarsi domattina e decidere di chiuderlo.
In tanti anni di frequentazione come accompagnatrice di un utente, ho visto sempre gli stessi due medici alternarsi al lavoro e seguire intanto il reparto delle degenze al piano superiore.
A volte mi sono chiesta chi glielo fa fare a Delle Monache e Orlando di rimanere qui, con le competenze che hanno. Ma per nostra fortuna c’è ancora un’etica che muove alcuni, e va oltre le carriere.
C’è chi sceglie di restare in un presidio periferico che nessun politico ha poi il coraggio di chiudere veramente, perché le legislature passano in fretta e arriva presto il tempo di tornare a chiedere voti anche in questi posti così sfigati.
Ma intanto il San Massimo come altri ospedali di prossimità vengono rosicchiati da dentro, scomposti, abbandonati all’incuria.
Di sera mettono paura, intere ali deserte, il linoleum dei pavimenti riparato qua e là con grossi pezzi di nastro adesivo.
Ogni tanto viene assegnato qualche giovane medico, ma con contratti di tre (TRE!) mesi, rinnovabili o anche no, in una condizione di eterno e frustrante precariato.
Chi vive nei piccoli luoghi sta perdendo o ha già perso il diritto alla salute. Da anni, da decenni la razionalizzazione della spesa sanitaria è usata come pretesto per una politica di basso cabotaggio che ha come solo obiettivo interessi singoli e particolari.
Neanche la pandemia sembra aver insegnato niente sull’importanza della medicina territoriale. Soprattutto non si è capito quanto lo spopolamento dei territori sulla dorsale appenninica sia legato anche alla sottrazione di risorse alla sanità locale. Ma quello che ci riesce meglio è “distruggere i mondi finché sono in vita per poi piangerli o rimpiangerli quando sono ormai defunti o moribondi”, dice Vito Teti. E certi piagnistei colposi sull’abbandono delle terre alte e medie risultano insopportabili non meno dei nuovi sfacciati inviti a governare lo spopolamento.
*scrittrice, vincitrice
del premio Campiello nel 2017
L’alta professionalità e la specializzazione raggiunte da questo servizio sono tali che, oltre al suo naturale bacino di utenza calcolabile in 40.000 persone considerando tutta la fascia pedemontana del pescarese e parte del teramano, riceve pazienti da altre Asl.
Ultimo riconoscimento in ordine di tempo è l’idoneità all’insegnamento della specializzazione in Medicina interna e in Gastroenterologia. A novembre avremo gli specializzandi delle università di Chieti e L’Aquila nel nostro piccolo ospedale.
Da anni accompagno un mio familiare in questo Day hospital, posso dire di conoscerlo. Conosco i medici e le infermiere.
Mi è stato subito chiaro che non si limitano alla somministrazione di farmaci o interventi parcellizzati, ma sono guidati da un’idea più forte e generale: la cura come presa in carico della persona nella sua interezza e complessità. È ciò che chiediamo al sistema sanitario: essere curati per il tutto che siamo e non ridotti al nostro organo malato.
Quanti ricoveri si è risparmiato il mio parente, quanti andirivieni con l’ospedale di Pescara, così scomodo da raggiungere per un anziano che abita in una contrada servita da una strada provinciale indegna di un Paese civile. E che risparmio di spesa per le casse dello Stato, queste prestazioni di alto livello erogate in regime ambulatoriale.
Finora ho raccontato il bello della storia, ma attenzione, ora arriva la parte nera.
Questo servizio di eccellenza non è mai stato accreditato formalmente come meriterebbe, al contrario ha seguito il destino di un ospedale che, come tutti quelli delle aree interne, è stato negli anni progressivamente depauperato di risorse umane e strutturali, svilito, svuotato.
La Medicina è stata geriatrizzata, la pianificazione dall’alto sembra orientata a trasformare il San Massimo in un cronicario o in un ospizio.
Il Day hospital di cui sopra non ha una sua autonomia, sulla carta quasi non esiste. Qualunque dirigente della sanità locale potrebbe svegliarsi domattina e decidere di chiuderlo.
In tanti anni di frequentazione come accompagnatrice di un utente, ho visto sempre gli stessi due medici alternarsi al lavoro e seguire intanto il reparto delle degenze al piano superiore.
A volte mi sono chiesta chi glielo fa fare a Delle Monache e Orlando di rimanere qui, con le competenze che hanno. Ma per nostra fortuna c’è ancora un’etica che muove alcuni, e va oltre le carriere.
C’è chi sceglie di restare in un presidio periferico che nessun politico ha poi il coraggio di chiudere veramente, perché le legislature passano in fretta e arriva presto il tempo di tornare a chiedere voti anche in questi posti così sfigati.
Ma intanto il San Massimo come altri ospedali di prossimità vengono rosicchiati da dentro, scomposti, abbandonati all’incuria.
Di sera mettono paura, intere ali deserte, il linoleum dei pavimenti riparato qua e là con grossi pezzi di nastro adesivo.
Ogni tanto viene assegnato qualche giovane medico, ma con contratti di tre (TRE!) mesi, rinnovabili o anche no, in una condizione di eterno e frustrante precariato.
Chi vive nei piccoli luoghi sta perdendo o ha già perso il diritto alla salute. Da anni, da decenni la razionalizzazione della spesa sanitaria è usata come pretesto per una politica di basso cabotaggio che ha come solo obiettivo interessi singoli e particolari.
Neanche la pandemia sembra aver insegnato niente sull’importanza della medicina territoriale. Soprattutto non si è capito quanto lo spopolamento dei territori sulla dorsale appenninica sia legato anche alla sottrazione di risorse alla sanità locale. Ma quello che ci riesce meglio è “distruggere i mondi finché sono in vita per poi piangerli o rimpiangerli quando sono ormai defunti o moribondi”, dice Vito Teti. E certi piagnistei colposi sull’abbandono delle terre alte e medie risultano insopportabili non meno dei nuovi sfacciati inviti a governare lo spopolamento.
*scrittrice, vincitrice
del premio Campiello nel 2017