«Quando Marchionne ci stringeva la mano» 

Dagli anni vissuti con il Ceo di Fca, abruzzese doc, all’era attuale di Tavares L’ex operaio racconta le visite nella ex Sevel e una umanità che non c’è più

ATESSA. Sergio Marchionne amava stringere le mani agli operai.
A Mirafiori, come racconta la dipendente in cassa integrazione di Torino e anche in Sevel, oggi Stellantis, il ceo dell'allora gruppo di Fca Fiat-Chrysler prediligeva il contatto diretto con le maestranze, meno con i sindacati non disposti a firmare il contratto specifico, come la Fiom.
E forse nella più grande fabbrica d'Abruzzo nata nel 1978 per costruire furgoni commerciali leggeri, lo faceva perfino con un po' di trasporto in più visto che si trattava del "suo" Abruzzo e della "sua" gente con la quale si divertiva a ricordare il dialetto del territorio.
Alla vigilia della più imponente manifestazione automotive a Roma, con un mondo che in Val di Sangro va letteralmente in pezzi, investito dalla crisi e dagli effetti della transizione energetica, anche Marchionne e la sua rivoluzione sul fronte delle relazioni sindacali, cambiate per sempre con l'avvento del contratto separato Fiat, sembrano più accettabili, meno sconquassanti di ciò che sta avvenendo oggi, con la cassa integrazione che imperversa da giugno e il Ducato elettrico che non tira più rispetto all'imbattibile furgone a benzina o diesel degli anni d'oro, quello che volevano tutti in Europa fino a due anni fa. E se prima c'era un capo che amava conoscere di persona i suoi dipendenti e oggi invece ce n'è uno che parla soltanto negli uffici e in inglese è forse anche questo un segno di come siano cambiati i tempi, probabilmente per sempre. Quello che manca sopra ogni cosa è l'umanità.
Lo ricorda Giuseppe Di Foglio, 65 anni e 40 anni in Sevel, che ha incontrato diverse volte Marchionne, di cui una nel 2013, quando l'ad venne il 9 luglio di quell'anno ad annunciare un investimento di 700 milioni di euro per il restyling del Ducato. «Mi sono messo nelle prime file perché per noi operai era un onore incontrarlo - racconta - non so perché ma quando mi passò vicino gli parlai in inglese perché io sono di origine anglosassone e lui ne rimase colpito. Si girò e mi guardò stupito, ricordo i suoi occhi, di una curiosità e umanità impressionanti, gli occhi di un gigante, un personaggio storico quale poi è diventato. Prima quando veniva in stabilimento le linee si fermavano e tutti volevano ascoltarlo, vederlo, salutarlo. Oggi se viene un capo come Tavares non si smette di lavorare e lui non passa dalle officine».
«L'umanità - dice Giuseppe - è la prima cosa. Sevel era una famiglia negli anni d'oro da 7mila operai (oggi il plant ne conta poco più di 4mila ndc), facevamo feste imponenti e organizzavamo tornei sportivi a cui io ho partecipato prima da calciatore, poi da allenatore e poi da dirigente. Un capo che ti dà una pacca sulla spalla è il primo motivo di orgoglio per un operaio, perché ti fa sentire parte di un tutto, ti senti utile, importante. Non sono un aziendalista - continua - ma mi sono sempre dato da fare, prima in linea, al controllo qualità, poi alla tracciatura e mi sono specializzato sul rapporto con i fornitori, ero addetto al controllo dei difetti dei veicoli, riuscivo a intercettarli dove non li vedeva nessuno e i miei capi apprezzavano il mio impegno, mi chiamavano per nome, conoscevano la mia famiglia e io la loro».
Per i 30 anni di Sevel, nel 2011, in lastratura allestirono una mostra di artigianato artistico. «C'era un artigiano di Guardiagrele esperto nella lavorazione del ferro - ricorda Walter Di Gregorio, ex dipendente - quando vide Marchionne gli regalò una rosa in ferro battuto e lui la apprezzò moltissimo. Alla fine della visita Marchionne stava per andare via con il suo staff e bloccò tutti per tornare indietro e andare a salutare quell'artigiano». Umanità. Ma come si è arrivati a oggi? Cosa manca rispetto a ieri? "«si è partiti dalle piccole cose, che però sono fondamentali come ad esempio la pulizia degli ambienti - ricorda Di Foglio -, con i bagni inaccessibili e la consapevolezza che tagliando le cose accessorie, via via si sarebbe passati alle cose più importanti».
E i salari? «Sono fortunato - spiega Di Foglio - grazie alle mie mansioni ho una pensione da 1.700 euro, ma capisco chi resta, l'operaia di Mirafiori con appena mille euro. Prima andavamo al lavoro felici, oggi sono tutti incazzati, non ci si parla, i capi sono capi, a malapena sanno come ti chiami. La cassa integrazione incide fino a 300 euro su uno stipendio medio, e fino a 500 per chi lavorava ai turni notturni, sono soldi».
Che macchina ha? «Due Panda a benzina - sorride - e per una società sportiva che dirigo usiamo un Ducato vecchio di 25 anni. Non mi piace l'idea dell'elettrico. Il Ducato lo compra chi lavora e macina chilometri. Oggi trovare una colonnina è già un miracolo e stare ore in attesa di una ricarica fa perdere tempo e soldi».
La spaventa la crisi? «Spero si possa tornare ai grandi numeri - sospira - a un modello che torni a far grande la Sevel come un tempo. Questa crisi mi preoccupa sia per Sevel che per il suo indotto. Ho già visto chiudere bar, attività e ristoranti, e sta accadendo di nuovo». (d.d.l.)