«Rigopiano, chi sbagliò non può essere assolto» 

In aula si incrociano parti civili e difese, è un lungo braccio di ferro

L’AQUILA. Frasi d’accusa e richieste di assoluzioni si incrociano nella stessa aula durante la seconda udienza del processo d'appello per il disastro di Rigopiano, costato la vita a 29 persone rimaste sotto le macerie dell'hotel travolto da una valanga il 18 gennaio 2017. In tribunale all’Aquila arriva il giorno delle parti civili costituite e di alcuni imputati, tra cui quello condannato alla pena più alta. Ma le prime sono notevolmente inferiori rispetto a quelle presenti nel primo grado che si concluse con 25 assoluzioni e sole cinque condanne ridotte con il rito abbreviato e di cui soltanto tre per il disastro (le altre due per abusi edilizi della struttura).
RISCHIO NON VALUTATO.
«Non può passare l'idea, come lascia intendere la sentenza di primo grado, che di fronte a tragedie del genere nessuno si assuma le proprie responsabilità». È quanto sostenuto dall'avvocatessa Wania Della Vigna, al termine del suo intervento davanti ai giudici della Corte d'Appello. «Il rischio che incombeva su quella struttura», prosegue il legale di alcune delle parti civili, «andava valutato. E invece non è stato fatto nulla e neppure il valore esposto: ossia gli insediamenti abitativi e soprattutto la vita umana dei dipendenti e ospiti dell'hotel. Nessuno è intervenuto in una catena di deresponsabilizzazione e di sottovalutazione di ogni forma di rischio».
Il legale punta il dito contro il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, «che ha chiuso le scuole ed ha ritenuto di dover dire alla popolazione, attraverso i social, di non mettersi in movimento in quei giorni, ma non ha pensato assolutamente di emanare una ordinanza per la chiusura del resort». E anche contro la Prefettura: «Allo stesso modo il prefetto, Francesco Provolo, poteva, indipendentemente dal sindaco, con i poteri che gli sono conferiti, emanare un'ordinanza di chiusura non solo dell'hotel ma anche della strada».
APPELLO INAMMISSIBILE.
Ma ieri, come si diceva, è stata anche la giornata della discussione della posizione del funzionario della Provincia Mauro Di Blasio, condannato insieme al suo dirigente, Paolo D'Incecco (la cui posizione verrà discussa nella prossima udienza) a 3 anni e 4 mesi di reclusione: la pena più alta tra quelle inflitte in primo grado. «Il tema giuridico che il collegio dovrà superare», afferma l'avvocato Fiorenzo Cieri, uno dei legali dell'imputato, «è il concetto di prevedibilità. Il giudice di primo grado aveva stampato a chiare lettere nella perizia che l'evento, in assenza della Carta pericolo valanghe, era assolutamente imprevedibile perché mancava un atto normativo di riferimento che avrebbe potuto allertare i soggetti operanti e dire, "attenzione c'è una norma che prevede il rischio valanghe". Ma così non è stato, e quindi il tutto viene ricondotto ad un fenomeno naturale assolutamente non punibile perché il fatto non costituisce reato».
E l'avvocato Placido Pelliccia, il codifensore di Di Blasio, aggiunge: «Abbiamo eccepito innanzitutto l'inammissibilità dell'appello della procura contro il nostro assistito, mentre nel merito abbiamo ripercorso le competenze, le funzioni proprie svolte da Di Blasio in quei giorni».
LA RIUNIONE IN PROVINCIA.
Il legale ha ricostruito anche le ore antecedenti la tragedia, sottolineando che Di Blasio aveva passato tutta la notte a Pianella per la grave emergenza maltempo che stava interessando tutto il territorio provinciale e che al mattino si era recato ad una riunione in Provincia «con il presidente Antonio Di Marco, il prefetto e l'Anas e proprio in quella sede, come dimostra il verbale della riunione che abbiamo prodotto, il presidente sollecitava il Prefetto sostenendo che la situazione emergenziale necessitava di mezzi adeguati, di una turbina. L'accusa, invece, ci contesta il fatto che noi dovevamo prevedere la valanga sulla scorta dei bollettini Meteomont e quindi tenere sgomberata la strada, dimenticando che quei bollettini non venivano notificati alla Provincia e che comunque quella zona non era segnalata a rischio valanghivo». I legali hanno quindi chiesto l'assoluzione.
GLI ALTRI IMPUTATI.
Ieri, inoltre, sono intervenuti anche il difensore del tecnico Giuseppe Gatto (il cui ricorso dovrebbe essere inammissibile) e del gestore dell'hotel, Bruno Di Tommaso, entrambi condannati a 6 mesi. Per il gestore, l'avvocato Sergio della Rocca ha evidenziato alla Corte che la sentenza di primo grado «ha trattato l'imprevedibilità, l'evitabilità e la concretizzazione del rischio, che sono elementi che vanno valutati prima dell'effettiva adozione di quelle misure di prevenzione. E tutte e tre resistono all'appello della procura». Sempre per quanto riguarda le misure di prevenzione, a fine udienza, il legale ha affermato che «la Asl aveva detto che erano state adottate in concreto quelle misure, per cui non c'erano violazioni della norma 81/2008: adottate formalmente e sostanzialmente e per questo abbiamo chiesto la conferma dell'assoluzione di primo grado. Quanto al falso per la tettoia, abbiamo invece chiesto la riforma della condanna con l'assoluzione».
SEQUESTRATI NEL RESORT.
Infine, per le parti non appellanti, hanno brevemente discusso fra gli altri il professor Nicola Pisani per conto della Regione Abruzzo che in primo grado si era costituita contro tutti ad eccezione degli imputati della Regione stessa, e anche l'avvocato Romolo Reboa, legale di alcune delle parti civili. Secondo quest’ultimo «la fattispecie criminosa doveva essere valutata molto più severamente dalla procura e mi riferisco al dolo eventuale. Tutti sapevano che quella strada che porta all'hotel, unica via di fuga, sarebbe rimasta impercorribile e che i turisti non avrebbero avuto la possibilità di tornare giù: per loro doveva essere una piacevole vacanza. Nessuno poteva immaginare che sarebbero rimasti sequestrati nel resort». Anche ieri i parenti delle vittime erano presenti. La prossima udienza si terrà il 20 dicembre.
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