Rissa in tribunale, la famiglia Rigante "Vogliono il processo via da Pescara"

Il papà dell’ultrà ucciso: "Ci hanno chiamati assassini e hanno tirato fuori i bastoni, era una cosa preparata"

PESCARA. «Ho visto quel gruppo già quando stava sotto, nell’atrio. Facce strafottenti che ti guardano tranquilli, tanto a loro non gliene frega niente». Dopo 351 giorni passati senza il figlio Domenico, l’ultrà ucciso da un commando rom la sera dello scorso primo maggio, Pasquale Rigante ha imparato a convivere con il dolore, ma non ce la fa a sopportare «la superbia e l’arroganza» di chi quel dolore continua a calpestarlo con gli sguardi e con le parole.

«Quello che è successo in Tribunale», commenta stremato da una notte insonne e una mattinata infernale, «è qualcosa di assurdo, che non doveva succedere e che», ammette Rigante, «non mi sarei mai aspettato. Ma evidentemente era una cosa preparata, si sono portati i bastoni degli ombrelloni per creare tensione ad arte, perché vogliono che il processo sia spostato da Pescara. Ma il processo», dice determinato, «deve restare qui, dove è stato ucciso Domenico. L’impatto ambientale deve servirgli da monito, gli deve ricordare ogni giorno quello che hanno combinato».

Non nomina i Ciarelli e non nomina i rom Pasquale, che però gli manda a dire: «Si ricordassero quello che hanno fatto e soprattutto come hanno ammazzato Domenico. Come un cane. E invece c’è pure chi ha il coraggio di gridarci che siamo noi gli assassini». Perché, come racconta lui stesso, «è stata questa frase, gridata da una zingara, a scatenare il parapiglia in Tribunale dopo che una ragazza del gruppo di Domenico l’aveva solo guardata».

E ancora: «Si sono portati dietro pure i figli piccoli», dice raccontando i disordini della mattinata, «e intanto continuano sempre con la stessa arroganza, la stessa superbia, che sono le cose che danno più fastidio, che fanno più male dopo quello che hanno fatto a Domenico. Ma a me interessa solo che siano condannati a pagare per quello che hanno combinato e soprattutto per il modo con cui l’hanno fatto, mentre una bambina di diciotto mesi oggi può salutare il padre solo davanti a una fotografia».

Si interrompe e abbassa lo sguardo Pasquale, che dopo un anno passato a sperare e ad aspettare la giustizia, ieri proprio non si aspettava, invece, di trovarsi in mezzo a quell’inferno. «È stata una scintilla che potrebbe innescare una miccia ben più pericolosa. Perché anche se è passato un anno la città non ha dimenticato, nessuno ha dimenticato quello che è successo». E proprio con la forza e la lucidità che lo contraddistinsero nei giorni successivi alla tragedia, quando con le sue parole riuscì a evitare che la rabbia per l’omicidio del figlio ultrà sfociasse in guerriglia urbana, Rigante torna a ripetere: «La violenza non serve a nessuno. Per il 9 maggio tutti devono fare un passo indietro».

Quanto al presunto assassino del figlio e a quello che è successo ieri mattina durante il quarto d’ora passato di fronte a lui in aula, Pasquale confida: «Ho provato a guardarlo in faccia, all’inizio soprattutto ho cercato di incrociare il suo sguardo. Ma niente. Ha solo risposto alle parole degli altri miei due figli. O meglio, ha provato a insultarli prima che il giudice lo invitasse al silenzio e mandasse i fratelli di Domenico fuori dall’aula per calmarsi». Ma la calma non sempre basta a dare la forza, a superare il dolore: «Quando gli hanno chiesto se volevano rientrare i ragazzi hanno detto di no».

«Quello che ho dentro io? È meglio che sto zitto», conclude Pasquale che ha passato il venticinquesimo compleanno di Domenico, lo scorso 8 aprile, insieme alla madre, ai fratelli e agli amici, al cimitero, sulla sua tomba. «Per il primo maggio, in collaborazione con i Rangers, stiamo organizzando una giornata in sua memoria, da trascorrere al parco de Riseis», anticipa Pasquale. «Una giornata all’insegna dell’amicizia, con i gruppi dei tifosi che arriveranno anche da fuori per partecipare alla partita di solidarietà con la squadra dei disabili di Villa de Riseis».

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