Schirato: vi racconto Baarìa
Il fotografo pescarese sul set del film di Tornatore che aprirà Venezia
Dal reportage sul dramma delle mine in Cambogia al set di “Baarìa”, il nuovo film di Giuseppe Tornatore che, mercoledì, aprirà la Mostra del cinema di Venezia. Passando per i lavori pubblicati su riviste e quotidiani come Vanity Fair, il Manifesto, Le Figaro, Venerdì di Repubblica. L’amicizia con il regista siciliano gli ha permesso di raccontare con il suo obiettivo la lavorazione di uno dei film più costosi della storia del cinema italiano - 30 milioni di euro - che sarà nelle sale a partire dal 25 settembre. Una carriera iniziata più di 10 anni fa, quella del fotografo Stefano Schirato, che si racconta in questa intervista al Centro.
Dove e quando nasce Stefano Schirato?
«Sono nato a Bologna nel 1974, ma vivo da sempre a Pescara. La mia famiglia è abruzzese. Si può dire che sono un pescarese doc».
Che studi ha fatto?
«Mi sono laureato in Scienze politiche all’università di Bologna».
Quando ha cominciato a interessarsi di fotografia?
«La mia passione per la fotografia è nata come hobby nel 1995, ma dal 1997 ho iniziato a lavorarci più professionalmente. Dopo la borsa di studio vinta con il National Geographic ho capito che avrei potuto lavorare seriamente come fotografo».
Quali sono stati i suoi primi lavori?
«Ho iniziato con il reportage “Gli occhi della Cambogia”. Sono stato in Cambogia con Emergency, per occuparmi del dramma delle mine antiuomo».
Lei ha seguito la lavorazione del nuovo film di Giuseppe Tornatore, “Baarìa”, ed è stato sul set del precedente “La sconosciuta”. Com’è nata questa collaborazione?
«L’amicizia con Giuseppe è nata qualche anno fa, quando scrisse la presentazione del mio libro “Né in terra né in mare”. Quando stava girando “La sconosciuta” gli dissi che mi sarebbe interessato molto poter vedere come si lavora su un set. Ho fotografato soltanto un paio di scene, ma a Giuseppe le mie fotografie sono piaciute. Con “Baarìa” abbiamo pensato di fare un lavoro di reportage, di raccontare tutto quello che c’è dietro il film».
Di cosa si è occupato precisamente?
«Sul set c’era già la fotografa di scena. Il mio lavoro era diverso. Dovevo documentare tutta la realizzazione del film: dalla prima pietra all’ultimo ciak. Ho seguito anche l’allestimento del set, tre volte più grande di quello voluto da Martin Scorsese per il suo “Gangs of New York”. La preparazione è durata quasi sei mesi: Bagheria, la città natale di Tornatore, è stata ricostruita in Tunisia. Ho scattato delle foto anche al regista mentre ascolta la colonna sonora insieme a Ennio Morricone. Con i miei scatti ho raccontato, inoltre, la preparazione delle scene. Le faccio un esempio: il bambino protagonista del film doveva essere ripreso mentre giocava con le mucche e le mungeva, ma non ne era capace. Tornatore e la produzione glielo hanno fatto spiegare da un vaccaio siciliano. Io ero lì e ho fotografato tutto il backstage».
Quanto è durata la lavorazione del film?
«Quasi un anno, con uno stacco tra dicembre e febbraio per gli Oscar. La fotografa di scena era fissa sul set, io invece ho trascorso soltanto dei periodi in Tunisia. Ho fatto avanti e indietro con Pescara circa 20 volte».
Qual è la sua opinione su “Baarìa”?
«Dalle ambientazioni ai personaggi mi ricorda molto “Nuovo cinema Paradiso”. E’ un film corale, che farà ridere, ma anche piangere».
Cosa caratterizza i suoi lavori?
«Lo sfondo sociale. Mi sono sempre occupato di reportage: sono un fotogiornalista. Cerco di raccontare sempre tematiche forti, com’è accaduto con il lavoro sulla schizofrenia e con le foto che documentavano la condizione dei marinai che vivono sulle navi sequestrate».
Cosa differenzia la foto di cronaca dalla foto d’arte?
«Quella di cronaca è una mera documentazione: il fotografo è sul posto e fa uno scatto. La seconda deve tendere all’arte, per cui non è più documentazione, ma si cerca di filtrare quello che si vede con un proprio stile e una propria idea. Come accade al giornalista, il fotografo viene colpito da alcuni particolari e cerca di raccontarli».
Preferisce le foto in bianco e nero o quelle a colori?
«Ho lavorato per molto tempo con il bianco e nero. Con la pellicola si poteva scegliere, ora però si lavora in digitale e i giornali con cui collaboro mi richiedono il colore. Posso dire che per esperienza di lavoro scatto con il colore, ma nel cuore resto un bianconerista».
Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Nei prossimi mesi verrà pubblicato un lavoro che ho realizzato per Vanity Fair. Sono stato in Albania per raccontare la vendetta tra le famiglie. Lì esiste il kanun, una sorta di codice civile che giustifica l’assassinio per vendicare la morte di un familiare. La casa viene considerata inviolabile e fino a quando si resta lì dentro si è al sicuro. Sono riuscito a prendere dei contatti e a documentare quello che succede. Probabilmente questi scatti saranno esposti in una mostra».
Cosa le ha lasciato questa esperienza?
«E’ stata un’esperienza molto forte. Quello che ricordo di quelle persone sono i sorrisi, la semplicità, la paura di trovarsi in una storia che non hanno deciso loro e che non è dipesa da loro. Persone che devono pagare per colpe che non hanno commesso direttamente, magari per l’omicidio commesso da un nonno. E’ una vita non vita che mi ha fatto riflettere molto: a un’ora di volo c’è una realtà al limite della sopravvivenza».
Dove e quando nasce Stefano Schirato?
«Sono nato a Bologna nel 1974, ma vivo da sempre a Pescara. La mia famiglia è abruzzese. Si può dire che sono un pescarese doc».
Che studi ha fatto?
«Mi sono laureato in Scienze politiche all’università di Bologna».
Quando ha cominciato a interessarsi di fotografia?
«La mia passione per la fotografia è nata come hobby nel 1995, ma dal 1997 ho iniziato a lavorarci più professionalmente. Dopo la borsa di studio vinta con il National Geographic ho capito che avrei potuto lavorare seriamente come fotografo».
Quali sono stati i suoi primi lavori?
«Ho iniziato con il reportage “Gli occhi della Cambogia”. Sono stato in Cambogia con Emergency, per occuparmi del dramma delle mine antiuomo».
Lei ha seguito la lavorazione del nuovo film di Giuseppe Tornatore, “Baarìa”, ed è stato sul set del precedente “La sconosciuta”. Com’è nata questa collaborazione?
«L’amicizia con Giuseppe è nata qualche anno fa, quando scrisse la presentazione del mio libro “Né in terra né in mare”. Quando stava girando “La sconosciuta” gli dissi che mi sarebbe interessato molto poter vedere come si lavora su un set. Ho fotografato soltanto un paio di scene, ma a Giuseppe le mie fotografie sono piaciute. Con “Baarìa” abbiamo pensato di fare un lavoro di reportage, di raccontare tutto quello che c’è dietro il film».
Di cosa si è occupato precisamente?
«Sul set c’era già la fotografa di scena. Il mio lavoro era diverso. Dovevo documentare tutta la realizzazione del film: dalla prima pietra all’ultimo ciak. Ho seguito anche l’allestimento del set, tre volte più grande di quello voluto da Martin Scorsese per il suo “Gangs of New York”. La preparazione è durata quasi sei mesi: Bagheria, la città natale di Tornatore, è stata ricostruita in Tunisia. Ho scattato delle foto anche al regista mentre ascolta la colonna sonora insieme a Ennio Morricone. Con i miei scatti ho raccontato, inoltre, la preparazione delle scene. Le faccio un esempio: il bambino protagonista del film doveva essere ripreso mentre giocava con le mucche e le mungeva, ma non ne era capace. Tornatore e la produzione glielo hanno fatto spiegare da un vaccaio siciliano. Io ero lì e ho fotografato tutto il backstage».
Quanto è durata la lavorazione del film?
«Quasi un anno, con uno stacco tra dicembre e febbraio per gli Oscar. La fotografa di scena era fissa sul set, io invece ho trascorso soltanto dei periodi in Tunisia. Ho fatto avanti e indietro con Pescara circa 20 volte».
Qual è la sua opinione su “Baarìa”?
«Dalle ambientazioni ai personaggi mi ricorda molto “Nuovo cinema Paradiso”. E’ un film corale, che farà ridere, ma anche piangere».
Cosa caratterizza i suoi lavori?
«Lo sfondo sociale. Mi sono sempre occupato di reportage: sono un fotogiornalista. Cerco di raccontare sempre tematiche forti, com’è accaduto con il lavoro sulla schizofrenia e con le foto che documentavano la condizione dei marinai che vivono sulle navi sequestrate».
Cosa differenzia la foto di cronaca dalla foto d’arte?
«Quella di cronaca è una mera documentazione: il fotografo è sul posto e fa uno scatto. La seconda deve tendere all’arte, per cui non è più documentazione, ma si cerca di filtrare quello che si vede con un proprio stile e una propria idea. Come accade al giornalista, il fotografo viene colpito da alcuni particolari e cerca di raccontarli».
Preferisce le foto in bianco e nero o quelle a colori?
«Ho lavorato per molto tempo con il bianco e nero. Con la pellicola si poteva scegliere, ora però si lavora in digitale e i giornali con cui collaboro mi richiedono il colore. Posso dire che per esperienza di lavoro scatto con il colore, ma nel cuore resto un bianconerista».
Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Nei prossimi mesi verrà pubblicato un lavoro che ho realizzato per Vanity Fair. Sono stato in Albania per raccontare la vendetta tra le famiglie. Lì esiste il kanun, una sorta di codice civile che giustifica l’assassinio per vendicare la morte di un familiare. La casa viene considerata inviolabile e fino a quando si resta lì dentro si è al sicuro. Sono riuscito a prendere dei contatti e a documentare quello che succede. Probabilmente questi scatti saranno esposti in una mostra».
Cosa le ha lasciato questa esperienza?
«E’ stata un’esperienza molto forte. Quello che ricordo di quelle persone sono i sorrisi, la semplicità, la paura di trovarsi in una storia che non hanno deciso loro e che non è dipesa da loro. Persone che devono pagare per colpe che non hanno commesso direttamente, magari per l’omicidio commesso da un nonno. E’ una vita non vita che mi ha fatto riflettere molto: a un’ora di volo c’è una realtà al limite della sopravvivenza».