Sotto la tenda con i lavoratori Honeywell
Atessa, paure e attese dei 420 dipendenti che rischiano il posto. A turno da settembre presidiano lo stabilimento chiuso
INVIATA AD ATESSA. È la vigilia dell’incontro a Roma tra il ministro Carlo Calenda e i vertici della Honeywell. L’umore dei lavoratori, in presidio da quasi due mesi davanti ai cancelli dello stabilimento, è variabile come il vento che all’improvviso fa serrare i giubbotti e avvicina nubi nere cariche di pioggia sulla Val di Sangro. «Se piove si allagherà», dicono indicando il tendone che da 58 giorni è diventato per loro casa e fabbrica. Lo stabilimento dei turbo è fermo ma la giornata è ancora scandita dai turni. Alle 6 arriva il cambio per chi ha fatto la notte. È il momento più duro, con le temperature che si abbassano e il profilo spettrale delle fabbriche intorno, immerse nel buio e nel silenzio. Ma il presidio non va mai lasciato sguarnito. Chi vuole chiudere un po’ gli occhi lo fa in auto o in tenda se si accende la stufa. Di contro, di giorno il tempo scorre lento. Si inganna con una giocata a carte o a calcio-tennis, mettendosi ai fornelli o chiacchierando. Si ricordano i vecchi tempi, quando la Honeywell, al suo picco, produceva 12mila turbine al giorno (nell’ultimo periodo erano 3-4mila). Capannelli di operai discutono animatamente della vertenza. Dopo quasi due mesi di silenzio da parte dell’azienda, anche l’ottimismo più granitico vacillerebbe. «È surreale, da 60 giorni stiamo vegliando il morto», dice Antonio, 50 anni, da 25 in Honeywell, «la nostra vita è bloccata. I dirigenti locali entrano dai cancelli e fanno spallucce, ci dicono che anche loro sono in attesa di notizie. Ci chiamano risorse umane e poi ci lasciano qui senza una risposta, a difendere con le unghie e i denti mille euro di stipendio». Nessuna azienda, in Abruzzo, ha mai scioperato tanto (alla Thales di Chieti la protesta fu sospesa dopo 53 giorni). «Ad ogni nuova settimana che iniziava pensavamo: “è quella decisiva”», racconta Gianluca, 48 anni, «invece niente, all’azienda questo sciopero ha fatto il solletico». Nel presidio numero 2, davanti all’azienda di trasporti Travaglini, non si può abbassare la guardia. Arrivano camion e Tir da controllare, per assicurarsi che turbocompressori e componenti in deposito non lascino Atessa. «Abbiamo rischiato più volte di essere investiti», raccontano gli operai del presidio, «da camionisti che non capivano cosa facessimo. Adesso sanno della nostra vertenza e si fermano spontaneamente per farci visionare i camion». Nel buio dell’incertezza per i 420 posti di lavoro, più altri 200 dell’indotto, l’unica luce arriva dalla solidarietà. Alle 13 dai colleghi della Valagro, distante appena 350 metri dal presidio, arrivano le salsicce per il pranzo. Carmine, lo chef del turno, si mette subito al lavoro. «Facciamo la colletta per fare la spesa, ognuno mette quello che può», spiega Saverio, 21 anni trascorsi in Honeywell, «chi un euro, chi due, chi niente. Con quello che raccogliamo andiamo alla bottega qui vicino, ma usciamo sempre con molta più roba». Dal bar arrivano i cornetti per la colazione, il caffè da un’impiegata di Travaglini, sconti dalla pizzeria e doni da tante aziende. I colleghi delle altre fabbriche si sono autotassati, diversi Comuni hanno donato soldi. Francesco non è di turno ma arriva con le sue bambine a salutare i colleghi. «La più grande ha compiuto 9 anni e ha voluto che la portassi qui», dice, «ha capito che c’è qualcosa che non va, che lo stipendio non c’è. Così adesso al supermercato passa davanti ai giocattoli senza voltarsi». Scherzi e battute non mancano ma la paura di doversi reinventare, a 40-50 anni, a volte affiora. «L’importante è che ci diano una risposta», dicono, «e se è negativa inizieremo un altro percorso».
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