Testa all’equipaggio: «Questo è solo l’inizio, i lavori vanno ultimati»

PESCARA. L’emozione è la stessa del primo giorno di scuola. La voglia di ripartire e lasciarsi alle spalle l’incubo del porto chiuso si somma all’ansia di non riuscire a tenere testa al maltempo con...

PESCARA. L’emozione è la stessa del primo giorno di scuola. La voglia di ripartire e lasciarsi alle spalle l’incubo del porto chiuso si somma all’ansia di non riuscire a tenere testa al maltempo con la stessa tenacia di 11 mesi fa, quando i pescherecci hanno lasciato per l’ultima volta la banchina dello scalo cittadino prima di restare imprigionati in uno specchio d’acqua poco più profondo di qualche centimetro che era già ufficialmente chiuso dal febbraio 2012.

«Quando mia moglie mi ha svegliato perché era arrivata l’ora di salpare ho avvertito un sussulto», racconta Mario Camplone, uno dei 43 lupi di mare che ieri, dopo mezzanotte, hanno mollato gli ormeggi sotto una pioggia battente per riprendere il largo per la pesca dopo quasi un anno di inattività e 478 giorni di porto bloccato. «Dovevamo tornare in mare, non potevamo più restare con le mani in mano», ammette il proprietario della Nuova Zita senza nascondere il bagaglio di incognite e preoccupazione che ogni marittimo si trascina dietro, «la settimana scorsa siamo usciti per testare le barche e le attrezzature, ma 12 ore fuori senza toccare terra sono tante. Dobbiamo riabituarci ad ascoltare i rumori del mare. E fino a quando non lo faremo sarà una palpitazione costante».

Gli occhi tradiscono un’emozione covata da quasi un anno. I marinai si scambiano sguardi d’intesa. Gli ultimi accorgimenti prima di levare le ancore e una pacca sulla spalla ai familiari arrivati a salutare. La nave di bordo è accesa e la Guardia costiera offre gli ultimi ragguagli sulle condizioni delle correnti e dei venti che soffiano sull’Adriatico. Si parte alla spicciolata: una barca per volta, per evitare di intasare quel canale scavato soltanto per 60mila metri cubi rispetto ai 200mila previsti. «Ci siamo quasi dimenticati di fare questo mestiere», sospira Giancarlo Palestini, 53 anni, pescatore da quando ne aveva 13, «non ho chiuso occhio per la tensione. Speriamo solo che non succeda nulla di brutto. Tornare a lavorare è una grande cosa perché il lavoro nobilita l’uomo, soprattutto se hai moglie e figli da mantenere. Ma in mare aperto è dura: salpi, butti le reti, pulisci il pesce, metti i prodotti sotto la ghiacciaia. Insomma non ti fermi mai». L’armatore sale sulla sua Gemì, scioglie le cime dalla banchina nord e accende i motori. Un ultimo sguardo alla terra ferma: «Speriamo che Dio ce la mandi buona», si lascia andare.

Mancano pochi minuti alle 2. Il peschereccio si allontana verso il Ponte del Mare lasciandosi le luci di Pescara alle spalle. È uno degli ultimi ad aver risposto all’ordinanza della Direzione marittima e a lasciare il porto. Sul molo resta una donna con i capelli bianchi coperta da un maglione di pile. Non sembra avvertire il freddo. «Mio marito faceva il pescatore», dice, «ero curiosa, non riuscivo a dormire e allora sono venuta a salutare i marinai che vanno a pescare». «Ci vediamo domani», urla all’equipaggio, «e portatemi qualcosa di buono». Sorride e resta a guardare le imbarcazioni che come tante lanterne mano a mano si fanno sempre più piccole e si perdono nell’orizzonte.

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