Uccise la moglie, il perito: agì per pietà
Lo psichiatra in aula: l’81enne di Penne depresso per le condizioni dell’anziana, scemate le capacità di intendere e di volere
PENNE. «Al momento del fatto, Gino Mazzini aveva le sue capacità di intendere e di volere parzialmente scemate». Lo ha detto ieri, davanti ai giudici della Corte d'Assise di Chieti, il dottor Maurizio Cupillari, che effettuò la perizia psichiatrica su Mazzini, l’uomo di 81 anni che il 29 maggio del 2020, in pieno lockdown, colpì sua moglie Maria Cretarola, 85 anni, malata da tempo, alla testa, con una statuetta raffigurante un Buddha, mentre erano nella loro casa di Penne.
Mazzini deve rispondere di omicidio volontario (il suo avvocato, Antonio Di Blasio, aveva chiesto per lui il rito abbreviato che la Corte ha rigettato per la presenza dell’aggravante del rapporto coniugale), e ieri, davanti al presidente Guido Campli, nel corso dell’udienza sono sfilati tutti i testi dell’accusa (la difesa non ne aveva): tre carabinieri che condussero le indagini e alcuni vicini di casa che accorsero al momento del fatto e che ricostruirono gli avvenimenti per quanto avevano potuto vedere e sentire subito dopo il fatto.
Lo psichiatra, nominato dalla procura di Pescara (all’epoca il fascicolo venne istruito dal pm Rosangela Di Stefano), si era già espresso con la sua relazione, spiegando che Mazzini era un «soggetto già affetto da depressione, che a causa delle continue malattie della moglie e della continua assistenza che le prestava, ha avuto un peggioramento del quadro clinico e ha cercato di porre fine alle sofferenze della moglie colpendola al capo per poi tagliarsi i polsi con il collo di una bottiglia. Non ce la faceva più a vederla soffrire, temeva di non riuscire più ad assisterla. I criminologi», aggiunse lo psichiatra, «li chiamano omicidi “pietas causa” o “altruisti”, anche se sembra un paradosso». E poi aggiunse ancora che «l’estremo atto violento viene giustificato con lo scopo di sottrarre le vittime a quella che presumono sarebbe una vita di sofferenze e infelicità». Ed ecco il perché delle conclusioni cui è arrivato: e cioè che Mazzini in quel momento aveva comunque «uno stato di mente tale da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere». Quindi, secondo la perizia, l’imputato è punibile (in quanto ritenuto non totalmente incapace), ma in modo più lieve. Attualmente Mazzini è ricoverato in una struttura ed è seguito da personale specializzato, e non è mai comparso davanti al giudice, neppure nella fase dell’udienza preliminare a Pescara. Fortunatamente quel tragico giorno, il pronto intervento di carabinieri e medici (Mazzini, in attesa della sua morte si sedette su una sedia dopo aver comunque avvisato una vicina di casa che fece scattare l’allarme) evitarono la morte di entrambi. Ai carabinieri che entrarono in casa, Mazzini confessò subito il suo gesto, affermando di aver fatto «una cosa brutta»: «Le volevo bene e non la volevo più vedere soffrire».
La donna morì diversi giorni dopo il fatto, ma il medico che eseguì l'autopsia, nonostante il tempo trascorso dalla violenta aggressione, mise in relazione il decesso dell’anziana con i colpi inferti dal marito, per cui il pm fece scattare l’accusa di omicidio volontario con relativa aggravante. Adesso l’udienza decisiva, con la discussione e la sentenza, ci sarà il prossimo 27 settembre.
Mazzini deve rispondere di omicidio volontario (il suo avvocato, Antonio Di Blasio, aveva chiesto per lui il rito abbreviato che la Corte ha rigettato per la presenza dell’aggravante del rapporto coniugale), e ieri, davanti al presidente Guido Campli, nel corso dell’udienza sono sfilati tutti i testi dell’accusa (la difesa non ne aveva): tre carabinieri che condussero le indagini e alcuni vicini di casa che accorsero al momento del fatto e che ricostruirono gli avvenimenti per quanto avevano potuto vedere e sentire subito dopo il fatto.
Lo psichiatra, nominato dalla procura di Pescara (all’epoca il fascicolo venne istruito dal pm Rosangela Di Stefano), si era già espresso con la sua relazione, spiegando che Mazzini era un «soggetto già affetto da depressione, che a causa delle continue malattie della moglie e della continua assistenza che le prestava, ha avuto un peggioramento del quadro clinico e ha cercato di porre fine alle sofferenze della moglie colpendola al capo per poi tagliarsi i polsi con il collo di una bottiglia. Non ce la faceva più a vederla soffrire, temeva di non riuscire più ad assisterla. I criminologi», aggiunse lo psichiatra, «li chiamano omicidi “pietas causa” o “altruisti”, anche se sembra un paradosso». E poi aggiunse ancora che «l’estremo atto violento viene giustificato con lo scopo di sottrarre le vittime a quella che presumono sarebbe una vita di sofferenze e infelicità». Ed ecco il perché delle conclusioni cui è arrivato: e cioè che Mazzini in quel momento aveva comunque «uno stato di mente tale da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere». Quindi, secondo la perizia, l’imputato è punibile (in quanto ritenuto non totalmente incapace), ma in modo più lieve. Attualmente Mazzini è ricoverato in una struttura ed è seguito da personale specializzato, e non è mai comparso davanti al giudice, neppure nella fase dell’udienza preliminare a Pescara. Fortunatamente quel tragico giorno, il pronto intervento di carabinieri e medici (Mazzini, in attesa della sua morte si sedette su una sedia dopo aver comunque avvisato una vicina di casa che fece scattare l’allarme) evitarono la morte di entrambi. Ai carabinieri che entrarono in casa, Mazzini confessò subito il suo gesto, affermando di aver fatto «una cosa brutta»: «Le volevo bene e non la volevo più vedere soffrire».
La donna morì diversi giorni dopo il fatto, ma il medico che eseguì l'autopsia, nonostante il tempo trascorso dalla violenta aggressione, mise in relazione il decesso dell’anziana con i colpi inferti dal marito, per cui il pm fece scattare l’accusa di omicidio volontario con relativa aggravante. Adesso l’udienza decisiva, con la discussione e la sentenza, ci sarà il prossimo 27 settembre.