«Voglio la verità su Marcinelle»

Il presidente dell'associazione vittime: nelle bare non ci sono i corpi dei morti

MANOPELLO. Il cinquantaquattresimo anniversario della sciagura mineraria di Marcinelle, avvenuta l'8 agosto 1956, quest'anno sarà oggetto di molte riflessioni. Riguardano la verità su Marcinelle, finora mai emersa, di quel terribile incidente a circa mille metri sotto terra nel Bois du Cazier dove persero la vita 262 minatori provenienti da tutta Europa.

Furono 262 le vittime italiane di cui 22 di Manoppello, 10 di Turrivalignani, 8 di Lettomanoppello, 1 di Alanno, 1 di Rosciano, 6 di Farindola, 1 di Elice.

«Una verità», spiega Nino Domenico Di Pietrantonio, presidente dell'associazione "Vittime del Bois du Cazier" di Lettomanppello, «che è rimasta sepolta con i minatori morti, ma che è tempo di far emergere. Sono trascorsi oltre cinquanta anni da quei giorni e la storia va scritta come in realtà accadde».

Di Pietrantonio racconta che dieci anni fa riuscì a rintracciare un certo Antonio Jannetta, all'epoca 75enne, minatore che confessò di essere lui il responsabile della tragedia. «Jannetta, nativo di Boiano, era addetto al carico e scarico dei carrelli di carbone», racconta Di Pietrantonio. «Lui agganciò male un carrello, provocando un corto circuito che innescò l'incendio nella miniera. Fumo e fiamme fecero il resto».

E fin qui potrebbe essere una confessione credibile. Ciò che non fu mai capito dai parenti delle vittime è la proposta che un ingegnere dirigente della miniera fece a Jannetta: quella della concessione di una lussuosa abitazione in sostituzione di quella che aveva. Jannetta rifiutò, ma emigrò in Canada, dove, oltre alla pensione, per molto tempo ha ricevuto un lauto assegno dal Belgio a titolo sconosciuto.

Di incredibile ci fu anche l'immediato racconto di Jannetta sul contenuto delle bare dove non ci sarebbero corpi dei minatori, o meglio non di tutti, ma materiali di risulta e parti dei cavalli che tiravano i carrelli. «Sconvolgente!», esclama Di Pietrantonio. Per la prima volta questo episodio fu dichiarato nel Parlamento italiano, nell'ottobre del 1956, dall'onorevole del Pci Antonio Corbo che chiese un'inchiesta, disattesa, su quei fatti.

Di Pietrantonio, che in quella sciagura perse il padre Emidio, non si è mai arreso. Già dieci anni fa, ha chiesto l'apertura della bara del padre per fare la prova del Dna. Ha chiesto aiuto a due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano e lo scorso anno al presidente della Camera Gianfranco Fini. «Non mi fermerò», dice, «arriverò al Parlamento europeo, interesserò storici e scienziati». Di Pietrantonio avanza un'ipotesi: «La miniera fu incendiata volutamente perché non sicura e non produttiva. Si voleva convincere le autorità belghe a chiuderla e scoraggiare gli emigrati e chiedere lavoro. Piccoli incidenti ripetuti sarebbero serviti per raggiungere il fine. Non si pensava a una tragedia di quella portata».

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