IL GIRO IN ABRUZZO

Borracce, sudore e maglie nere / VIDEO

Il ciclismo negli anni del Dopoguerra fra corridori dimenticati e voglia di riscatto

«Di cosa ho paura? Di voltarmi indietro: quando ci si volta indietro non si pedala più. Ma quanti minuti ho? Mi prendono? Sento che mi prendono». «Non è possibile, neanche con l'elicottero riuscirebbero a riprendere questi 17 minuti». «Bon, magari crepo, ma un metro dopo l'arivo». Lucillo Lievore era un gregario della Mainetti, in quel Giro d’Italia del 1966. Veniva da un paese del Veneto, Breganze, ed era in fuga dal mattino quando gli si affiancò un’auto della Rai. Da un finestrino aperto, Sergio Zavoli allungò il suo microfono. Lievore era l’esemplare perfetto della sua idea di ciclismo come impasto di eroismo e fatica, in cui il sudore non ripagato degli ultimi non aveva niente da invidiare narrativamente alla munifica gloria dei primi. Gli uni e gli altri sfilavano, dopo ogni tappa, sul palcoscenico del suo “Processo”, in un piccolo teatro dell’Italia stortignaccola da poco uscita dalla guerra e affamata di riscatto.


Lievore. Era, quel programma televisivo, soprattutto il racconto di un’epopea del Paese e del ciclismo, lo sport che, più di ogni altro, rifletteva come uno specchio il suo desiderio di pane e di rose. Al traguardo, quel giorno di 52 anni fa, Lievore giunse secondo, dietro un certo Scandelli, come lui oscuro operaio delle due ruote, del quale disse con la sua fatalistica cantilena veneta: «No ghe vogio mal. Anca lù el gha fato tanta fadiga». «Per me», commentò poi Zavoli, «il vero vincitore fu proprio Lucillo Lievore». Con testardaggine contadina, Lievore coltivò poi la sua frequentazione con la sconfitta concludendo il Giro all'ultimo posto della classifica generale, per due volte, nel 1967 e nel 1971.

GUARDA IL VIDEO

Campo Imperatore, storie e leggende sul Giro in Abruzzo
Pasetta di Barrea racconta il passaggio di borraccia tra Coppi e Bartali (di Claudio Lattanzio)

Maglia nera. Si chiamava così quella indossata dall’ultimo in classifica al Giro. Dava diritto anche a un premio in denaro negli anni, tra il 1946 e il 1951, in cui fu assegnata realmente. Altrimenti era un simbolo. Era il segno di un Paese in cui non ci si vergognava ancora di non essere vincenti. Non solo nel ghirigoro del tracciato del Giro ma anche nella banale retta che racchiudeva le vite italiane. La maglia nera per eccellenza fu un piemontese di Tortona che si chiamava Luigi Malabrocca, soprannominato il “Cinese” perché aveva gli occhi a mandorla. Malabrocca indossò per due anni consecutivi la maglia nera del Giro, nel 1946 e nel 1947. Ma due anni dopo restò vittima del suo stesso gioco: aspettò troppo tempo e quando tagliò il traguardo dell'ultima tappa a Milano i cronometristi e i giudici se n’erano già andati a casa, assegnandogli lo stesso tempo del gruppo e a un altro corridore, Sante Carollo, la maglia nera con relativo premio.

La borraccia. Il Giro visto dal fondo non era un’esercitazione letteraria, negli anni Cinquanta e Sessanta. Tutt’altro. Era come lo specchio portato in giro per la città che, secondo Stendhal, è l’essenza dell’arte della narrazione. Si sentivano ancora un po’ tutti degli “ultimi” gli italiani mentre le loro case si riempivano degli elettrodomestici dell’era del Boom, che sembravano sfidare la condanna biblica al sudore. L’acqua era maledetta e benedetta in quella battaglia quotidiana del Giro su strade spesso strerrate: quella dei temporali mandata già dal buondio e quella da bere portata dai gregari ai campioni. Il rifornimento dell’acqua era un assalto alle fontanelle che ancora punteggiavano come pietre miliari quelle strade. Come il cibo, l’acqua era una medicina, soprattutto nelle giornate storte, quelle in cui i capitani dimenticavano di centellinare il “mangiare” e il “bere”, e finivano in crisi che si traducevano nelle doppie cifre dei minuti di distacco dai primi ad arrivare sul traguardo.
Giornali. I giornali erano quelli sportivi dai quali i ragazzi di quegli anni ritagliavamo i tabellini degli arrivi e della classifica generale, e i disegni delle planimetrie delle tappe per incollarli su quaderni che, terminato il Giro, finivano in dimenticate scatole dei ricordi. Ma erano anche i giornali che i ciclisti infilavano sotto le magliette all’inizio di una discesa per ripararsi dal freddo e dal vento. Finire su quei giornali era un sogno dei corridori ai quali era negata la fama duratura regalata dai successi.
Enfant du pays. Era il modo ricercato, da liceale che ci tiene a far sapere di aver letto qualche libro, con il quale Adriano Dezan , la voce del ciclismo in televisione, chiamava il ciclista che attraversava il paese in cui era nato. Quasi sempre l’enfant du pays cercava di andare in fuga in coincidenza con il passaggio sulle vie di casa. La gloria durava un momento, il tempo di assorbire il calore degli applausi di amici e parenti, prima di rientrare nel gruppo.
La fuga. Era il momento più atteso, come l’assolo in un concerto. Era l’azzardo assoluto, se si scappava dall’indistinto patchwork multicolore del gruppo quando mancavano ancora ore e chilometri all’arrivo. Era un gesto temerario se si andava via da soli, senza neppure l’aiuto di un gregario capace di tirare, cioè di fendere il vento come un parabrezza umano. Ma la fuga aveva bisogno delle salite per dispiegare in pieno il suo tono epico. A volte la fuga costeggiava sconsideratamente il dramma fisico quando non anche la tragedia.


Tom Simpson. Una tragedia come quella di un corridore inglese, Tom Simpson, che sulle giravole spietate del Mont Ventoux nel Tour de France del 1967 morì d’infarto. La tragedia andò in onda in diretta, un pomeriggio di luglio, sugli schermi in bianco e nero della televisione di allora. Per molti ragazzi fu il primo contatto con la morte improvvisa, inattesa. Quella morte per sfinimento lasciò una traccia indelebile sull’immaginazione del ciclismo. Se si poteva morire di fatica, allora quella sibilante sfilata di biciclette che avevano imparato a vedere e sentire dal ciglio di una strada era qualcosa di più di uno sport. Il senso di questo sport, andando avanti nella vita, alcuni di quei ragazzi l’avrebbero trovato inciampando nell’esergo di un libro di Walter Benjamin, un altro sfortunato fuggitivo, che recita così: «Dell'onore senza gloria, della grandezza senza splendore, della dignità senza mercede».
©RIPRODUZIONE RISERVATA