Di Matteo, l'abruzzese che vince a Londra / Foto

Il padre del tecnico del Chelsea originario di Paglieta: così è arrivato alla finale di Champions

LANCIANO. Chi l'avrebbe mai detto che quel ragazzo mingherlino, nato in Svizzera e lì cresciuto calcisticamente (nelle file dello Sciaffusa), sarebbe entrato nella storia del football, essendo il sesto allenatore italiano (dopo Bernardini, Viani, Rocco, Invernizzi e Trapattoni) capace di qualificarsi ad una finale di Champion's League? Che lo faccia alla guida di un club inglese (il Chelsea del magnate russo Abramovich), ha poca importanza. Lui infatti, Roberto Di Matteo, rappresenta comunque uno spicchio d'Italia. Soprattutto in un periodo non particolarmente felice, a livello internazionale, per le nostre squadre di club.

Ecco perchè, il 19 maggio prossimo all'Allianz Arena di Monaco, teatro della sfida con il Bayern, l'ex secondo di Villas Boas potrà contare sulle simpatie ed il sostegno di un'intera regione.

Quella dalla quale, martedì scorso, lo hanno seguito, in tv, i suoi familiari, rimasti senza voce al termine dell'impresa colta al Nou Camp: il papà Fiorindo, la mamma Gianna, la sorella maggiore Concetta ed il nipotino Flavio, tutti riuniti nella bella villetta di Villa Martelli, frazione alle porte di Lanciano.

E' lì infatti che risiedono, da alcuni anni, i suoi genitori, originari di Paglieta ma in gioventù emigrati in Svizzera, dove sono poi nati Concetta e Roberto.

«Che fin da bambino», rammenta la mamma, «aveva sempre il pallone tra i piedi. Me lo ricordo piccolissimo giocare per ore davanti al garage di casa. A volte anche da solo, in attesa che tornasse il papà dal lavoro».

«Mi aspettava», aggiunge il padre, che a quei tempi si dilettava come allenatore di squadrette giovanili locali, «pur di scambiare qualche tiro al pallone con me. Ed io l'ho sempre incoraggiato, perchè vedevo che aveva la stoffa per fare il calciatore».

«Il diploma (da ragioniere, ndc) però», aggiunge immediatamente la signora Gianna, «lo ha preso perchè su questo siamo sempre stati intransigenti. Gli dicevamo, infatti, che nel calcio non ci sono certezze ed era meglio rincorrere questi sogni avendo in mano il cosiddetto pezzo di carta». Sogni divenuti realtà.. «E' vero, ed anche se da ragazzino immaginavo per lui un futuro da calciatore professionista», prosegue papà Fiorindo, «non avrei mai pensato potesse arrivare così in alto. Da giocatore prima e da allenatore ora». Ed è sempre il padre a raccontare i primi passi, nel mondo del calcio, di Roberto. «In Svizzera», spiega, «non è possibile essere tesserati prima dei sette anni. Così, proprio il giorno in cui Roberto festeggiò il suo settimo compleanno, lo portai nella sede dello Schaffhausen (il nome del club di Sciaffusa, la città natale, ndc) per tesserarlo. Ricordo che era un giovedì, ed al sabato, ovvero due giorni dopo, esordì con la nuova squadra. Prima della gara, vedendolo così piccolino, più di un dirigente storse la bocca, per poi ricredersi dopo averlo visto in azione».

Quando ha iniziato davvero a pensare che suo figlio avrebbe sfondato nel mondo del calcio? «La certezza», spiega il papà, «l'ho avuta alcuni anni dopo, ma all'età di 12-13 anni, quando con la sua squadra si esibiva prima delle gare interne della formazione maggiore, che militava in A, mi capitava spesso di sentire i commenti entusiastici dei tecnici presenti. E la cosa, oltre a farmi grande piacere, era la conferma delle sue qualità».

Zurigo e Arau, nella massima serie elvetica, quindi la chiamata della Lazio ed il definitivo salto di qualità... «Il giorno della presentazione in maglia biancoceleste», rivela la sorella Concetta, «con lui c'era Marchegiani e le attenzioni erano tutte rivolte al portiere, molto più noto di Roberto. Che col tempo, però, ha saputo farsi apprezzare, sia dai tifosi che dai compagni di squadra».

Il ricordo più bello? «Vederlo giocare», afferma il padre, «con la maglia azzurra (34 le presenze complessivamente totalizzate, ndc) contro la Svizzera, in occasione del Mundialito. Il più brutto, invece, riguarda sicuramente il giorno del suo ritiro da calciatore, a seguito del grave infortunio di gioco (triplice frattura della gamba sinistra, ndc) occorsogli nel 2000 durante una gara di Coppa Uefa tra il Chelsea ed il San Gallo. Un momento difficile, dal quale seppe comunque riprendersi, fino ad intraprendere la carriera di allenatore».

Iniziata sulla panchina dell'MK Dons (Terza divisione inglese) e proseguita alla guida del West Bronwich Albion (Championship), promosso al primo colpo in Premier. Un anno fa l'amarezza dell'esonero, seguita dal ritorno nei "Blues": prima come vice di Villas Boas ed ora da primo allenatore..

«Scelte», svelano i familiari, «fatte in prima persona, visto che Roberto ci mette al corrente di ogni cosa, ma poi è sempre lui a decidere».

L'ultima volta che vi siete visti? «A Natale, siamo stati da lui a Londra, ed il 26 dicembre abbiamo seguito il match tra Chelsea e Fulham. In Italia manca da Pasqua del 2011, ma ci ha promesso che, impegni permettendo, tornerà questa estate».

Il 19 maggio tutti a Monaco? «Io spero di andare», afferma papà Fiorindo, «ma dato che seguirlo in tv ha portato bene, potremmo anche decidere di restare qui, a casa».

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