IL CAMPIONE
Sammartino: io, la leggenda del wrestling
Intervista al lottatore originario di Pizzoferrato in occasione dell'inaugurazione di una statua in paese: "Ai tempi della Seconda guerra mondiale qui si viveva con niente"
PIZZOFERRATO. Mister “Sansone italiano”, chi è Bruno Sammartino?
«Forse ancora non lo so. Sono nato qui, questa è una certezza: ecco, sono uno che non si scorda da dove è venuto. Il mio cuore è qui, in questi luoghi, tra la mia gente, tra i monti Pizzi».
Che ricordi ha della gioventù a Pizzoferrato?
«Ho vissuto qui tempi difficili, brutti. Era il periodo della Seconda guerra mondiale. Ricordo con passione le scampagnate che facevamo ad agosto, in occasione delle feste patronali di San Domenico, con mamma che preparava lu taralle per il pic nic. Ma era un tempo anche speciale, dove si viveva con niente. Andavo nei campi ad aiutare zio Camillo con la giumenta per arare con la forza delle braccia. Papà era già in America. Poi un giorno mamma disse: qui non c’è nulla per la nostra vita, conviene che raggiungiamo papà negli Stati Uniti. E così siamo partiti verso l’avventura, senza conoscere nulla».
È vero che dicono che lei non è mai cambiato nella vita?
«Sì, è così. Ho sofferto assai nella gioventù perché a Pizzoferrato non c’era nulla da mangiare per la nostra famiglia. Ora posso dire di essere contento della scelta fatta e ringrazio Dio per tutto ciò che ho avuto dalla vita».
Com’è nata la leggenda Sammartino?
«Andavo al Ginnasio sei giorni alla settimana: in tre giorni frequentavo corsi di lotta libera e greco romana di due ore l’uno e negli altri tre giorni facevo pesistica per tre ore e mezza ogni volta. Da giovane avevo la febbre reumatica, ero malato e non conoscevo l’inglese. Molti compagni di classe mi prendevano in giro e mi facevano dispetti. Poi un giorno un ragazzo mi disse: “Perché non reagisci? Non farti mettere le mani addosso. Vieni con me, ti porto in palestra così almeno ti difendi”. Da quel momento non ho più smesso di allenarmi. E pensare che debole com’ero non potevo sollevare pesi. Ho trovato in me una forza fisica straordinaria».
Che ricordi ha del suo amico Rocky Marciano?
«Voleva essere arbitro nelle mie gare di lotta nelle tre settimane che ho combattuto in Australia e così è stato. Poi dovevo partecipare ad altre gare in Sudafrica e mi ha chiesto la stessa cosa. Ci mettemmo d’accordo per sentirci al telefono nel pomeriggio di una domenica: avrei parlato con gli organizzatori del macht per fargli sapere se poteva arbitrare ed eventualmente su quale budget poteva contare. Ma quello stesso giorno precipitò insieme al pilota del suo aereo privato, a Newton, nello Iowa, in un momento di condizioni atmosferiche proibitive. Che tristezza».
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