Banda dei narcos e maxi traffici: chieste condanne per 125 anni 

In venti accusati di aver fatto arrivare da Bogotà fino a 50 chili di cocaina in ovuli ingoiati da corrieri  L’operazione contro il crimine transnazionale ottenne i complimenti dello scrittore Roberto Saviano 

TERAMO. È una requisitoria rigorosa che colpisce al cuore un’organizzazione criminale transnazionale specializzata nel traffico di cocaina dalla Colombia in Abruzzo, ma che fa i conti anche con la scure della prescrizione che si abbatte sui tempi lunghi dei procedimenti penali. Perché dai 125 anni complessivi di carcere chiesti per i venti imputati nel processo alla banda dei narcos, restano fuori i reati previsti per il traffico di ingenti quantitativi ormai prescritti.
Il processo in corso davanti al tribunale teramano in composizione collegiale è quello per la maxi operazione antidroga “Barrik” che dieci anni fa portò a 58 arresti per traffico internazionale di cocaina fra l'Abruzzo e il Sud America, con base logistica proprio nel Teramano. Un’organizzazione di colombiani così articolata, scaltra ed organizzata da far scendere in campo lo scrittore Roberto Saviano che nei giorni degli arresti scrisse su Facebook e Twitter: «L'Abruzzo è diventato centrale come area di stoccaggio della cocaina perché considerato territorio sicuro, isolato e insospettabile. L'operazione ha fermato un'organizzazione colombiana e italiana dei narcos». Molti di quei 58 arrestati hanno scelto riti alternativi, mentre in venti il rito ordinario. Una istruttoria lunga e complessa con centinaia di testi ascoltati e con la requisitoria affidata al pm della distrettuale Roberta D’Avolio. Per il presunto capo dell'organizzazione Joel Dinato Burgos Nunez la Procura ha chiesto una condanna a 23 anni, mentre per gli altri imputati variano dagli otto agli undici. L'indagine aveva scoperto tre livelli di organizzazione gerarchica: dai capi ai collaboratori corrieri fino a chi vendeva lo stupefacente sul territorio. Per tutti regole ben precise. I corrieri dovevano ingerire almeno trenta ovuli di cocaina ricoperti con cera aromatizzata al cioccolato e al rum per ingannare l'olfatto dei cani agli aeroporti. Il trasporto eccezionale veniva pagato da tremila a quattromila euro. Il pericolo era solo uno: rottura degli involucri nello stomaco e morte sul colpo. Ma i cittadini dominicani reclutati erano disposti a correre questo rischio.
Di volta in volta venivano contattati da un intermediario dell'organizzazione che aveva il compito di sceglierli e prepararli al viaggio. E l'organizzazione preferiva soprattutto le donne, meglio se accompagnate da bimbi perché meno sospettabili. La droga arrivava anche allo stato liquido nascosta in contenitori per aerosol o schiuma da barba. Quattro le rotte scelte per farli viaggiare: Santo Domingo, Madrid, Milano e Giulianova; Santo Domingo, Madrid e Ancona; Bogotà, Roma e Alba; Calì (Colombia), San Josè (Costa Rica), Francoforte, Roma e Alba. Le operazioni venivano delegate a persone esterne all'associazione che dietro compenso di 100 euro facevano versamenti inferiori ai 2000 euro. Questo per evitare la tracciabilità dei movimenti di denaro e l'individuazione dei mandanti. Si torna in aula il 16 novembre (collegio presieduto da Carlo Calvaresi, a latere Francesco Ferretti e Mariangela Mastro) per le ultime arringhe delle difese.
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