«Cacciato per l’ammanco di 1.500 euro»
Il cassiere: punito in modo sproporzionato perché intanto era scoppiato un caso più grave. Faccio ricorso al giudice
TERAMO. Uno dei due dipendenti teramani della filiale Unicredit di piazza Garibaldi sospesi dall’azienda a causa di presunti ammanchi è stato licenziato. E, pregando di mantenere l’anonimato (per comodità lo chiameremo Fabio), ha chiesto al Centro di raccontare la propria versione dei fatti. Soprattutto per un motivo: distinguere nettamente la propria posizione da quella dell’altro impiegato nella bufera. «Io», dice, «sono stato cacciato perché sono spariti dalla cassa 1.500 euro in circostanze controverse, o comunque a mio avviso non chiare; lui ha una trentina di denunce da parte di clienti a cui avrebbe sottratto, negli anni, delle somme per almeno un milione e mezzo».
L’altro dipendente non ha ancora ricevuto la lettera di licenziamento, ma solo perché sugli enormi ammanchi di cui si sarebbe reso responsabile si sta ancora facendo luce. Insomma, sarà certamente cacciato anche lui. Ma non è questo il punto. Quello che non va giù a Fabio è essere stato trattato con una severità che giudica sproporzionata. «Per quello che mi si addebitava mi aspettavo un richiamo», dice, «e lo stesso si aspettavano i sindacati. Invece mi hanno licenziato per giusta causa senza valutare né la mia lunga esperienza nell’istituto, né la buona fede negli errori commessi». E il motivo di questa severità, per il cassiere che racconta la propria verità, sarebbe proprio il fatto che la sua vicenda si è sovrapposta a quella, gravissima, dei soldi che sarebbero stati sistematicamente sottratti ai conti di decine di clienti dal consulente titoli che lavora nella stessa filiale (quella di piazza Garibaldi). «Mi hanno voluto dare una punizione esemplare», dice il cassiere, «ma io non ci sto e sto già preparando il ricorso al giudice del lavoro».
Secondo la versione di Fabio, tutto sarebbe nato dalla diatriba con un collega il cui comportamento superficiale sarebbe ricaduto pesantemente su di lui. «Il venerdì sera lui carica il bancomat senza contare i soldi», dice il cassiere, «e il lunedì mattina io sono in cassa. I soldi, circa 11mila euro, risultano alla contabilità. La sera, però, non quadro di 1.500 euro. E tre giorni dopo un ispettore lo constata. Il collega gli dice: i soldi li ho dati a Fabio. Ne nasce un confronto tra me e lui e danno ragione a lui, giudicando le mie giustificazioni non credibili».
In realtà nella lettera di licenziamento c’è anche un altro addebito, e cioè l’aver compiuto operazioni in titoli (con i soldi del proprio conto corrente) sul terminale della banca in orario di lavoro. «È stata mera superficialità», conclude Fabio, «quelle operazioni potevo farle anche con il mio cellulare. Ripeto, ci stava un provvedimento, ma certo non il licenziamento».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
L’altro dipendente non ha ancora ricevuto la lettera di licenziamento, ma solo perché sugli enormi ammanchi di cui si sarebbe reso responsabile si sta ancora facendo luce. Insomma, sarà certamente cacciato anche lui. Ma non è questo il punto. Quello che non va giù a Fabio è essere stato trattato con una severità che giudica sproporzionata. «Per quello che mi si addebitava mi aspettavo un richiamo», dice, «e lo stesso si aspettavano i sindacati. Invece mi hanno licenziato per giusta causa senza valutare né la mia lunga esperienza nell’istituto, né la buona fede negli errori commessi». E il motivo di questa severità, per il cassiere che racconta la propria verità, sarebbe proprio il fatto che la sua vicenda si è sovrapposta a quella, gravissima, dei soldi che sarebbero stati sistematicamente sottratti ai conti di decine di clienti dal consulente titoli che lavora nella stessa filiale (quella di piazza Garibaldi). «Mi hanno voluto dare una punizione esemplare», dice il cassiere, «ma io non ci sto e sto già preparando il ricorso al giudice del lavoro».
Secondo la versione di Fabio, tutto sarebbe nato dalla diatriba con un collega il cui comportamento superficiale sarebbe ricaduto pesantemente su di lui. «Il venerdì sera lui carica il bancomat senza contare i soldi», dice il cassiere, «e il lunedì mattina io sono in cassa. I soldi, circa 11mila euro, risultano alla contabilità. La sera, però, non quadro di 1.500 euro. E tre giorni dopo un ispettore lo constata. Il collega gli dice: i soldi li ho dati a Fabio. Ne nasce un confronto tra me e lui e danno ragione a lui, giudicando le mie giustificazioni non credibili».
In realtà nella lettera di licenziamento c’è anche un altro addebito, e cioè l’aver compiuto operazioni in titoli (con i soldi del proprio conto corrente) sul terminale della banca in orario di lavoro. «È stata mera superficialità», conclude Fabio, «quelle operazioni potevo farle anche con il mio cellulare. Ripeto, ci stava un provvedimento, ma certo non il licenziamento».
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