«Con vent’anni hai una seconda chance»
La moglie del carabiniere ucciso abbraccia il condannato Gorelli in aula: «Nessuno merita di finire i suoi giorni in galera»
NOTARESCO. «Vent’anni di reclusione anziché l’ergastolo significano per quel ragazzo un’altra possibilità. Tanto, nessuna pena restituirà mai mio marito». Parole semplici e allo stesso tempo disarmanti escono dalla bocca di Claudia Francardi, all’indomani della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Firenze che annulla l’ergastolo per Matteo Gorelli e lo condanna a 20 anni. Il giovane è accusato di aver massacrato e ucciso con un palo di legno il marito della signora Claudia, l’appuntato dei carabinieri Antonio Santarelli, originario di Notaresco. Una vicenda drammatica, a margine di un controllo dopo un rave party, che ha segnato per sempre la vita dei protagonisti: uomini che non ci sono più; figli, madri e mogli che sopravvivono, cercando giorno dopo giorno le motivazioni per andare avanti nonostante questi solchi nell’anima. Si spiega forse così l’abbraccio in aula tra la donna e Gorelli, prima che quest’ultimo si sedesse al banco degli imputati. «In realtà», chiarisce la donna, «tra me e Matteo è cominciato un percorso di riconciliazione mediato dalla comunità di recupero Exodus e adesso, per noi, è naturale avere un contatto».
Signora Francardi, quanto è difficile portare avanti questo percorso?
«L’impatto è stato durissimo la prima volta. Ci siamo tenuti per mano con in mezzo un rosario che ho deciso di regalare al ragazzo. La mia ferita fa ancora male e c’è stato un momento in cui ho dovuto affrontare crisi depressive e, persino, assumere psicofarmaci. In quei momenti, arrivi ad augurare ogni male a chi uccide tuo marito. Ho augurato anche la morte a quel ragazzo. Poi, però, riesci piano piano a prendere le distanze da questi sentimenti. È difficile, perché un delitto del genere non si dimentica. Ma al di là dell’atto c’è dietro una persona, un ventenne con tutta la sua fragilità. Così ho fatto leva sul mio credo e ho iniziato a guardare in un’altra direzione».
Alla luce di questo, lei che ha sempre giudicato l’ergastolo come misura troppo forte nei confronti del ragazzo, valuta opportuno che in appello siano state riconosciute tutte le attenuanti generiche?
«Con una pena di questo tipo, un ragazzo della sua età può essere recuperato. Perché l’ergastolo toglie dignità a un essere umano. Io credo che Gesù sia venuto a salvarci. Tutti. Nessuno escluso. L'ergastolo è una cosa molto lontana da quello che penso: è una pena che significa dire ad una persona “non avrò mai più fiducia in te”. D’altro canto, non credo che una pena inferiore possa togliere dignità a mio marito. Antonio amava i giovani e avrebbe capito che è importante dare a tutti una seconda possibilità».
Le sue affermazioni sembrano tutt’altro che scontate dopo quello che è successo, da quel maledetto 25 aprile del 2011.
«Questo tempo è stato segnato dal dolore ma anche da insegnamenti importanti ad andare avanti. Se mi fossi fermata al dolore, mi sarei perduta. Forse, la mia vita stessa sarebbe finita. Tante persone si fermano dopo una tragedia del genere e non muovono un passo, lasciandosi consumare dalla vendetta e dal risentimento. Io ho scelto di fare qualcosa di diverso. Lo faccio per me. Anche quel ragazzo ha deciso spontaneamente di mettersi in gioco, di affrontarmi. Insieme abbiamo avviato questo percorso».
Ha apprezzato la scelta della comunità di Roseto di intitolare una piazza a suo marito?
«Sono molto felice, il caso ha voluto che sia stata scelta la stessa piazza dove noi parcheggiavamo per andare al mare. Torno ogni anno volentieri a Roseto, insieme a mio figlio. Certo, Antonio mi manca, mi mancano quelle passeggiate sul lungomare. Ma qui mi sento a casa».
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