Denis Cavatassi assolto  dalla condanna a morte 

L’annuncio alla sorella via whatsapp: «Finalmente sono un uomo libero»

TORTORETO. La fine di un incubo è il suono di un messaggio vocale inviato alla sorella Romina: «Finalmente sono libero».
Denis Cavatassi, il 51enne imprenditore di Tortoreto condannato a morte in Thailandia con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio, lascia l’inferno del carcere di Phuket con una sentenza di assoluzione definitiva emessa dalla Corte suprema thailandese. Alle spalle una battaglia combattuta su più fronti a cominciare da quei protocolli internazionali sempre più difficili da applicare. In prima linea i familiari che non si sono mai arresi, decisi a dimostrare in tutti i modi la sua innocenza. Fino all’epilogo di una sentenza sperata ma sicuramente non scontata emessa dopo un calvario durato sette anni, fatto di umiliazioni, torture, paura.
L’ARRESTO. Cavatassi, laureato in agronomia e dal 2009 a Phuket come titolare di un ristorante, viene arrestato nel 2011 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio Luciano Butti per un presunto credito. Successivamente viene rilasciato su cauzione in attesa del processo. L’imprenditore, che si è sempre dichiarato innocente, resta in Thailandia convinto che il processo chiarirà tutto. «Non ho nulla da temere» dice ai familiari. Nel 2015 arriva la condanna a morte con il processo di primo grado. Nel 2017 la sentenza viene confermata e l’uomo entra nel carcere di Phuket.
IL CARCERE. Prima in isolamento con le catene ai piedi. Poi la detenzione in una cella comune condivisa con 45 persone. Un processo, quello di secondo grado, segnato come il precedente da prove che, sostengono i familiari, «sono inconsistenti, con errori ed equivoci». Sempre denunciati dai fratelli Romina e Adriano che oggi non smettono di ringraziare «tutti quelli che si sono battuti per la sua libertà»: dalla Farnesina ai giornalisti che «hanno fatto da cassa di risonanza» della vicenda fino agli avvocati Daniela Ballerini e Puttri Kuwanonda. «Nessun movente, nessuna prova, nessuna testimonianza a carico» aveva ribadito a metà novembre la sorella sottolineando l'amicizia che legava il fratello alla vittima, tanto che a pochi giorni dalla data dell'assassinio avrebbe dovuto testimoniare a suo favore nel divorzio di Butti dalla moglie tedesca. «Cavatassi è stato posto in stato di fermo senza avere diritto a un avvocato, senza un traduttore, senza nessun rappresentante dell'ambasciata» era stata la ricostruzione dell'avvocato Ballerini in una conferenza stampa convocata in Senato a febbraio insieme ad Amnesty International e al presidente della Commissione per la tutela dei Diritti Umani Luigi Manconi.
NESSUNA FUGA. È stato uno degli argomenti su cui familiari e legali hanno maggiormente insistito: dopo il rilascio su cauzione in attesa del processo Cavatassi è rimasto in Thailandia per aspettare il processo convinto della sua innocenza. «Rilasciato su cauzione dopo il primo fermo poteva scappare», avevano fatto notare, «ma non l'ha fatto perché ha aspettato il processo convinto di un'assoluzione». Un aspetto più volte sottolineato dal fratello Adriano, l'unico ad averlo incontrato dopo il fermo nel carcere di Phuket, raccontando di aver visto «all’interno del penitenziario persone al limite della sopravvivenza molte delle quali colpite da scabbia». Un inferno descritto dallo stesso presidente Manconi nel corso della conferenza di febbraio e durante la quale lo stesso aveva sollecitato l’intervento urgente del Governo italiano sottolineando, proprio in quell’occasione, l’esistenza di tremila italiani detenuti all’estero senza nessuna tutela dei diritti umani. Purtroppo, infatti, il caso di Cavatassi non è isolato, così come più volte ribadito dall’associazione “Prigionieri del silenzio” (onlus che si occupa di italiani detenuti all'estero) e da Amnesty International.
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