Il carcere di Teramo: un giardino per le famiglie
Colloqui all’aperto tra giochi e verde per detenuti e figli. Il direttore: i bimbi non devono essere traumatizzati dalle sbarre
TERAMO. «I bambini non sentono l’odore del carcere» ripete il direttore di Castrogno. Non dovrebbero. Ma quando infanzia e sbarre s’intersecano, quando puoi vedere tuo padre o tua madre solo dietro un vetro, allora l’odore ti resta attaccato addosso. E a nulla servono Carte dell’Onu o circolari del sorriso. Eppure in quest’Italia condannata dalla Corte Europea «per il trattamento inumano e degradante dei detenuti» si possono strappare angoli di terra per allestire giardini e giochi dove far incontrare reclusi e figli. Tra alte mura che aspettano di essere colorate. Succede per la prima volta a Teramo, nel penitenziario più sovraffollato d’Abruzzo.
IL VIDEO Colloqui con i detenuti tra i giochi dei bambini
Il direttore Stefano Liberatore è un padre che ha preso i giochi dei figli e li ha portati a Castrogno, si è improvvisato giardiniere e insieme ai detenuti ha piantato alberi e fiori, ha inseguito fondi sempre più esigui per comprare gazebo sotto cui far incontrare le famiglie, ha realizzato scivoli di cemento per abbattere le barriere architettoniche. Sogna di coprire le mura con murales, di avere altre altalene e scivoli, di poter estendere quello che chiama il “giardino degli affetti” anche alla sezione maschile. «Perchè l’immobilismo uccide», dice questo funzionario che da vent’anni gira i penitenziari italiani con esperienze a Sulmona, Brescia, Cremona, l’Opera di Milano, «bisogna dare dignità ai detenuti, aiutarli a recuperare la genitorialità. E farli incontrare all’aperto con i figli è un primo passo. L’attenzione per i bambini che accedono alle strutture penitenziarie è sintomo di civiltà della pena, perchè significa rispetto per la dignità dei reclusi i cui affetti divengono oggetto di attenzione positiva da parte dello Stato e può contribuire alla credibilità del percorso di rieducazione. Certo non basta, non è sufficiente, ma è comunque qualcosa». E qualcosa – quando fondi e personale sono sempre di meno, quando la burocrazia frena tutto rendendo difficile, se non impossibile, ogni percorso di riabilitazione garantito dalla Costituzione – diventa quello che vedi in un assolato sabato di settembre: bimbi nel giardino di un carcere a trovare mamma o papà, stretti tra un abbraccio e un giro sull’ altalena. Pronti a fare un pic-nic insieme nell’area in cui campeggia il vademecum con le regole «per non sporcare a terra, non danneggiare i giochi, non urlare». E’ sempre difficile, ma forse così lo è un po’ di meno. Perchè se la Carta Onu sui diritti del fanciullo stabilisce «che il bambino ha il diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e diretti con i genitori detenuti» il carcere resta un luogo chiuso dove il tempo è sospeso e spesso non esiste più, dove sconosciuti dividono ore e spazio in balia del caldo, del panico, del vuoto, della rabbia propria e altrui.
Michel Foucault nel 1975 in “Sorvegliare e punire” sosteneva «che la prigione fabbrica indirettamente dei delinquenti facendo cadere in miseria la famiglia del detenuto». E 40 anni dopo l’aggravante del sovraffollamento può solo mortificare o cancellare ogni residuo di speranza. «La realtà carceraria è quella che è», dice Liberatore, «i numeri non aiutano, ma bisogna sempre andare avanti cercando di fare il possibile per garantire dignità a chi è recluso. Pur con i pochi fondi che oggi arrivano. Io devo ringraziare il personale, gli agenti, il comandante Osvaldo Vaddinelli che condividono con me questa speranza di cambiamento. Con loro anche il presidente del Bim Franco Iachetti e la preside dell’istituto Di Poppa Silvia Manetta sempre pronti a collaborare con i nostri progetti». Ora il direttore di Castrogno spera di poter colorare le mura, di trovare fondi e volontari che lo aiutino a creare altri “giardini degli affetti”. «Coinvolgeremo i detenuti», continua, «ma se c’è qualcuno, qualche ente o associazione che vuole aiutarci siamo pronti ad accoglierli». Sempre inseguendo un solo obiettivo: evitare che i reclusi vengano trattati da esclusi.
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