In tre condannati a dieci anni in Cassazione
Per i magistrati uno solo colpì la vittima, ma ci fu «un agire comune con un concorso morale»
ALBA ADRIATICA. In quei drammatici giorni del novembre 2009 ad Alba Adriatica scoppiò una vera e propria rivolta con centinaia di cittadini scesi in strada per chiedere più sicurezza. La cronaca ricorda cortei, manifestazioni di protesta, una città blindata con forze dell’ordine schierate ad ogni angolo di strada.
L’epilogo giudiziario del caso lo hanno scritto i giudici ella Cassazione nel 2013 respingendo i ricorsi delle difese e confermando la condanna di secondo grado per Danilo Levakovic e Sante Spinelli: i due rom assolti in primo grado e condannati in secondo per concorso in omicidio preterintenzionale stanno scontando dieci anni di reclusione come Elvis Levakovic, il giovane rom con cui erano quando, la sera del 10 novembre 2009, quest'ultimo sferrò il pugno mortale all'imprenditore Emanuele Fadani. Per i giudici d'Appello, infatti, i due quella notte erano con Elvis e per questo moralmente responsabili. «La caratteristica che mette insieme il concorso morale dei tre», hanno scritto nelle motivazioni i magistrati dell'Aquila, «oltre al colpo sferrato da uno solo è l'agire congiunto». È questo agire congiunto fu uno dei capisaldi dell'inchiesta della Procura teramana che nel rito abbreviato del primo grado aveva chiesto trent'anni per tutti e tre: un'azione collettiva e non individuale, maturata al termine di un litigio tra Fadani e un suo amico da una parte e i tre rom dall'altra. Per i giudici di secondo grado, così come aveva ipotizzato la Procura teramana, Fadani venne colpito con un calcio anche quando era a terra. Un colpo temporalmente collocato tra il pugno mortale e il momento del decesso, quando l'uomo era steso, ormai agonizzate, sull'asfalto. Quel calcio aveva provocato una ferita alla fronte che il consulente tecnico dell'accusa (per questo particolare sentito come teste anche dai giudici d'Appello) non ha ritenuto da correlarsi né alla caduta a terra della vittima e nemmeno a manipolazioni fatte nei concitati momenti dei soccorsi.
«La natura contusiva della ferita lascia pochi dubbi», è scritto a questo proposito nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, «sul fatto che la stessa è stata causata da un ulteriore colpo inferto alla vittima». Da chi dei tre non è stato possibile accertarlo. «Pur non essendovi indicazioni ricostruttive in ordine alla paternità del calcio», hanno sentenziato i magistrati, «è assai verosimile che esso sia stato inflitto proprio nel momento in cui la vittima si trovava a terra circondata dagli imputati».(d.p.)
©RIPRODUZIONE RISERVATA .
L’epilogo giudiziario del caso lo hanno scritto i giudici ella Cassazione nel 2013 respingendo i ricorsi delle difese e confermando la condanna di secondo grado per Danilo Levakovic e Sante Spinelli: i due rom assolti in primo grado e condannati in secondo per concorso in omicidio preterintenzionale stanno scontando dieci anni di reclusione come Elvis Levakovic, il giovane rom con cui erano quando, la sera del 10 novembre 2009, quest'ultimo sferrò il pugno mortale all'imprenditore Emanuele Fadani. Per i giudici d'Appello, infatti, i due quella notte erano con Elvis e per questo moralmente responsabili. «La caratteristica che mette insieme il concorso morale dei tre», hanno scritto nelle motivazioni i magistrati dell'Aquila, «oltre al colpo sferrato da uno solo è l'agire congiunto». È questo agire congiunto fu uno dei capisaldi dell'inchiesta della Procura teramana che nel rito abbreviato del primo grado aveva chiesto trent'anni per tutti e tre: un'azione collettiva e non individuale, maturata al termine di un litigio tra Fadani e un suo amico da una parte e i tre rom dall'altra. Per i giudici di secondo grado, così come aveva ipotizzato la Procura teramana, Fadani venne colpito con un calcio anche quando era a terra. Un colpo temporalmente collocato tra il pugno mortale e il momento del decesso, quando l'uomo era steso, ormai agonizzate, sull'asfalto. Quel calcio aveva provocato una ferita alla fronte che il consulente tecnico dell'accusa (per questo particolare sentito come teste anche dai giudici d'Appello) non ha ritenuto da correlarsi né alla caduta a terra della vittima e nemmeno a manipolazioni fatte nei concitati momenti dei soccorsi.
«La natura contusiva della ferita lascia pochi dubbi», è scritto a questo proposito nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, «sul fatto che la stessa è stata causata da un ulteriore colpo inferto alla vittima». Da chi dei tre non è stato possibile accertarlo. «Pur non essendovi indicazioni ricostruttive in ordine alla paternità del calcio», hanno sentenziato i magistrati, «è assai verosimile che esso sia stato inflitto proprio nel momento in cui la vittima si trovava a terra circondata dagli imputati».(d.p.)
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