Licenziato perché Drag queen, la sentenza del giudice di Teramo: è stato discriminato
Il caso di Lady Limoncella, risarcito per i danni morali dopo aver perso il posto da commesso. Le motivazioni del magistrato: "Subdoli pregiudizi moralistici nell’atteggiamento della società"
TERAMO. Un licenziamento per giusta causa legittimo ma con modalità che il giudice non esita a definire discriminatorie e per questo lesive della dignità umana. E’ una sentenza che trova linfa soprattutto nella giurisprudenza comunitaria in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio quella che il giudice del lavoro Maria Rosaria Pietropaolo inanella sul caso di Lady Limoncella, il 39enne commesso Giuseppe Starace licenziato dal negozio in cui lavorava con l’accusa di essersi esibito come drag queen in un periodo in cui era assente per motivi di malattia. Perchè le sentenze, spogliate dei tecnicismi giuridici, hanno una funzione comunicativa: servono ad offrire gli strumenti per capire come una società considera se stessa e le proprie relazioni. «Ritiene questo giudice che tali fatti al di là della loro incidenza sulla persistenza del rapporto di lavoro», scrive il magistrato, «abbiano comunque rilevanza sul piano di tutela dell’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente, nonchè del rispetto generale obbligo del neminem laedere, con particolare riferimento al diritto all’intangibilità della sfera personale e alla libertà di esprimere la propria personalità in contesti estranei al luogo di lavoro».
Sostiene il tribunale che il commesso ha sbagliato ad esibirsi durante un periodo in cui era assente dal lavoro per motivi di malattia «perchè ha, di fatto, pregiudicato e, comunque, ritardato la guarigione e il rientro in servizio, in aperta violazione degli obblighi preparatori e strumentali rispetto alla corretta esecuzione del contratto. La partecipazione del ricorrente allo spettacolo integra grave violazione dei doveri generali di buona fede e correttezza e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà». E quindi il licenziamento deve ritenersi legittimo «in quanto proporzionato all’illecito disciplinare commesso». Ma è con altrettanta fermezza che il magistrato sottolinea come «le modalità con cui la società è pervenuta a tale risultato sono censurabili in quanto il comportamento di fatto tenuto dalla società e, comunque, ad essa riferibile evidenzia un atteggiamento non rispettoso della dignità del lavoro in quanto incentrato sulla valorizzazione di aspetti attinenti alle abitudini e al modo di essere di ogni persona, estranei al rapporto di lavoro». Passaggi che spiegano perchè il magistrato abbia disposto un risarcimento danni di 8 mila euro e annullato le lettere di dimissioni presentate da Starace perchè «in un stato di ridotta capacità di discernimento e volizione sul quale hanno indubbiamente inciso i discorsi che hanno accompagnato la lettera di contestazione. Il timore del ricorrente che tale vicenda potesse giungere a conoscenza della madre dimostra, implicitamente, che i responsabili dell’azienda hanno fatto leva sull’unico aspetto che avrebbe potuto creare, secondo la morale corrente, un qualche imbarazzo o discredito sulla persona del ricorrente, vale a dire quello relativo all’esibizione tenuta in qualità di drag queen». E ancora: «L’atteggiamento di censura disciplinare, nella specie oggettivamente connotato da subdoli pregiudizi moralistici o, comunque, non corretto da parte dell’azienda si palesa anche nel tenore letterale delle comunicazioni di licenziamento, nella quale risulta del tutto gratuito il riferimento a concetti estranei al rapporto di lavoro, quale quello dell’etica morale e del costume, evidentemente riferito alle tendenze personali del ricorrente rilevanti esclusivamente nella sfera del privato». Un altro capitolo della vicenda lo scriverà la corte d’appello a cui la difesa di Starace (rappresentata dall’avvocato Sigmar Frattarelli) ha fatto ricorso per ottenere il reintegro.
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