Melania e le altre, papà Gennaro: «Una strage che non si ferma»
La famiglia Rea: «Dopo nostra figlia tante altre donne sono state uccise, ma lo Stato resta a guardare Pensiamo a tutti i genitori come noi, in questi anni ne abbiamo contattati tanti per sentirci meno soli»
TERAMO. Melania e le altre. Perché se i luoghi delle grandi storie di cronaca nera sono spazi difficili da vivere, i femminicidi non sono mai tragedie private. Alla vigilia di un’altra giornata internazionale contro la violenza sulle donne (il 25 novembre) e con l’attualità di un altro processo a raccontare una strage infinita (l’omicidio di Giulia Tramontano uccisa incinta dal compagno), le parole di Gennaro Rea fermano il tempo. «Ogni volta per me è una coltellata perché dopo Melania nulla è cambiato, anzi tutto è peggiorato e i femminicidi ormai non si contano più» dice il papà di Melania massacrata con 35 coltellate sferrate dal marito Salvatore Parolisi quel 18 aprile del 2011 nel bosco delle Casermette mentre la loro figlioletta dormiva in auto.
Dopo Melania è arrivata la legge contro il femminicidio, ma la strage non si ferma. Che cosa manca?
«Manca la certezza della pena in questo Paese in cui lo Stato continua a guardare questo infinito elenco di donne uccise da uomini. Guardi il caso della mia Melania e pensi che tra qualche tempo l’assassino di mia figlia potrà pensare alla libertà, a rifarsi una vita, come se l’omicidio fosse stato una parentesi. Io non credo che chi ha ucciso in quel modo possa redimersi, possa pentirsi. Penso invece che chi ha fatto una cosa così possa rifarla. E allora credo che sia giusto che resti in carcere per sempre, che si butti la chiave perché uno che fa una cosa del genere può solo rimanere in cella. Dopo l’omicidio di Melania la mia famiglia ha fondato un’associazione contro la violenza sulle donne perché l’attenzione resti sempre alta, ma è lo Stato che deve fare di più».
L’ex caporal maggiore Salvatore Parolisi, il marito di Melania, è stato condannato a una pena definitiva di vent’anni dopo che la Cassazione ha eliminato l’aggravante della crudeltà. Lei crede sia stata fatta giustizia?
««Non posso dire che Melania abbia avuto giustizia perché non l’ha avuta. Il marito l’ha uccisa con 35 coltellate mentre la loro figlioletta di 17 mesi era in auto, l’ha lasciata agonizzante in un bosco e dopo qualche giorno è tornato ad oltraggiare il corpo per depistare le indagini. Ma per i giudici questo non vuol dire essere crudeli. Parolisi ha sempre mentito, ha mentito a noi, agli investigatori che cercavano la verità. Ha sempre raccontato bugie ma nonostante questo è stato premiato dalla giustizia che l’anno scorso gli ha concesso di uscire per un permesso premio. E anche in quest’occasione ha continuato a mentire, a dire bugie. I permessi sono stati bloccati, ma sappiamo tutti che prima o poi per lui arriverà il momento di uscire. Potrà tornare dai suoi familiari, ma mia figlia non tornerà più».
Sua nipote aveva 17 mesi quando la madre venne uccisa a pochi metri dall’auto in cui si trovava. Oggi è una ragazza. Farà delle domande.
«Le fa perché noi le abbiamo sempre parlato di sua mamma. Mia nipote è cresciuta nella verità. È seguita dagli psicologi del tribunale e cresce benissimo conoscendo la verità. Negli anni anche io e mia moglie siamo diventati psicologi, psicologi di noi stessi, per affrontare con lei tutto al meglio cercando di mettere da parte il dolore di genitori per essere solo nonni».
In questi anni lei ha contattato i genitori di altre donne uccise, a cominciare da quelli di Elena Ceste, la mamma di Costigliole d’Asti ammazzata nel 2014 dal marito e il cui corpo venne ritrovato dieci mesi dopo la scomparsa. Condividere lo stesso dolore aiuta a sopravvivere?
«Ho pensato a tutti i nonni che vivono questa nostra situazione e che in questa Italia sono sempre di più visto che i femminicidi purtroppo non si fermano. Ho pensato ai figli delle vittime di femminicidio, ai tanti bambini che restano senza genitori e per cui i nonni diventano mamme e papà. Ho pensato a tutto questo e ho cominciato a cercare chi vive la mia stessa condizione. Per sentirci meno soli in questo Paese dove la giustizia per le vittime non c’è mai e quando c’è è sempre poca».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Dopo Melania è arrivata la legge contro il femminicidio, ma la strage non si ferma. Che cosa manca?
«Manca la certezza della pena in questo Paese in cui lo Stato continua a guardare questo infinito elenco di donne uccise da uomini. Guardi il caso della mia Melania e pensi che tra qualche tempo l’assassino di mia figlia potrà pensare alla libertà, a rifarsi una vita, come se l’omicidio fosse stato una parentesi. Io non credo che chi ha ucciso in quel modo possa redimersi, possa pentirsi. Penso invece che chi ha fatto una cosa così possa rifarla. E allora credo che sia giusto che resti in carcere per sempre, che si butti la chiave perché uno che fa una cosa del genere può solo rimanere in cella. Dopo l’omicidio di Melania la mia famiglia ha fondato un’associazione contro la violenza sulle donne perché l’attenzione resti sempre alta, ma è lo Stato che deve fare di più».
L’ex caporal maggiore Salvatore Parolisi, il marito di Melania, è stato condannato a una pena definitiva di vent’anni dopo che la Cassazione ha eliminato l’aggravante della crudeltà. Lei crede sia stata fatta giustizia?
««Non posso dire che Melania abbia avuto giustizia perché non l’ha avuta. Il marito l’ha uccisa con 35 coltellate mentre la loro figlioletta di 17 mesi era in auto, l’ha lasciata agonizzante in un bosco e dopo qualche giorno è tornato ad oltraggiare il corpo per depistare le indagini. Ma per i giudici questo non vuol dire essere crudeli. Parolisi ha sempre mentito, ha mentito a noi, agli investigatori che cercavano la verità. Ha sempre raccontato bugie ma nonostante questo è stato premiato dalla giustizia che l’anno scorso gli ha concesso di uscire per un permesso premio. E anche in quest’occasione ha continuato a mentire, a dire bugie. I permessi sono stati bloccati, ma sappiamo tutti che prima o poi per lui arriverà il momento di uscire. Potrà tornare dai suoi familiari, ma mia figlia non tornerà più».
Sua nipote aveva 17 mesi quando la madre venne uccisa a pochi metri dall’auto in cui si trovava. Oggi è una ragazza. Farà delle domande.
«Le fa perché noi le abbiamo sempre parlato di sua mamma. Mia nipote è cresciuta nella verità. È seguita dagli psicologi del tribunale e cresce benissimo conoscendo la verità. Negli anni anche io e mia moglie siamo diventati psicologi, psicologi di noi stessi, per affrontare con lei tutto al meglio cercando di mettere da parte il dolore di genitori per essere solo nonni».
In questi anni lei ha contattato i genitori di altre donne uccise, a cominciare da quelli di Elena Ceste, la mamma di Costigliole d’Asti ammazzata nel 2014 dal marito e il cui corpo venne ritrovato dieci mesi dopo la scomparsa. Condividere lo stesso dolore aiuta a sopravvivere?
«Ho pensato a tutti i nonni che vivono questa nostra situazione e che in questa Italia sono sempre di più visto che i femminicidi purtroppo non si fermano. Ho pensato ai figli delle vittime di femminicidio, ai tanti bambini che restano senza genitori e per cui i nonni diventano mamme e papà. Ho pensato a tutto questo e ho cominciato a cercare chi vive la mia stessa condizione. Per sentirci meno soli in questo Paese dove la giustizia per le vittime non c’è mai e quando c’è è sempre poca».
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