Teramo, Parolisi salva un detenuto dal suicidio

Il caporale, accusato di aver ucciso la moglie Melania Rea, capisce che un detenuto sta per impiccarsi, grida per chiamare le guardie e lo salva 

TERAMO. Nel carcere che, dopo Rebibbia e Lecce, è il terzo in Italia per tentati suicidi, la cronaca di un’altra tragedia sventata passa attraverso il nome di Salvatore Parolisi. Il caporal maggiore dell’esercito, da un anno a Castrogno con l’accusa di aver ucciso con 35 coltellate la moglie Melania Rea e imputato di omicidio pluriaggravato in un processo in corso, ha salvato un detenuto che voleva impiccarsi.

E’ successo qualche giorno fa, nel momento in cui nel penitenziario teramano due reclusi si sono uccisi nel giro di 48 ore. Quel gestoParolisi lo ha raccontato ad uno dei suoi legali, l’avvocato Federica Benguardato, durante un recente colloquio. E’ la narrazione di un momento, di un attimo, del tentativo di salvare la vita a qualcuno da una cella in cui da 12 mesi si vive con l’accusa di averla tolta alla mamma di tua figlia. Parolisi ha visto il detenuto recluso nella stanza davanti alla sua spostare uno sgabello, tentare di appendere qualcosa ad una grata: gesti inequivocabili preludio di un dramma. Così ha urlato, ha chiamato gli agenti. «Parolisi è un militare», racconta l’avvocato Benguardato, «ed è evidente che è abituato a comportarsi in un determinato modo. Quello che nelle scorse settimane è successo a Castrogno lo ha molto impressionato. Ha raccontato che ormai da giorni vedeva quel ragazzo isolato da tutti, quasi sempre addormentato sulla branda. La sua cella si trova proprio di fronte alla sua. Un giorno lo ha visto spostare uno sgabello, fare qualcosa con le lenzuola e ha intuito che forse stava per fare un gesto grave. Così ha gridato, ha chiamato gli agenti che sono intervenuti immediatamente e lo hanno salvato».

Il caporal maggiore condivide la sua cella con un ex carabiniere siciliano che deve scontare una condanna per rapina. «Sa di vivere in una situazione estrema come è quella di un carcere», dice ancora il legale, «ma aspetta fiducioso l’esito del processo. Ha fiducia nella giustizia».

Per due procure, due gip, i giudici di un tribunale del Riesame e quelli della Suprema Corte è stato lui ad uccidere la moglie nel bosco di Ripe quel 18 aprile del 2011. Lo ha fatto per un movente passionale: l’amante soldatessa a cui aveva fatto credere che si stava separando e che in quei giorni l’avrebbe raggiunta ad Amalfi per conoscere i suoi genitori. Ma il caporal maggiore ha sempre negato: ai giudici del Riesame dell’Aquila, gli unici a cui ha parlato, ha detto che quel giorno aveva portato moglie e figlia a Colle San Marco per una gita e che ha veduto Melania per l’ultima volta mentre si allontanava in cerca di un bagno. Ma su quel pianoro nessuno li ha visti. Almeno nessuno delle decine di testi ascoltati dagli investigatori. Contro di lui molti indizi, nessuna prova regina. Indizi che raccontano, senza riuscire a spiegare, la dinamica di un crimine diventato un caso giudiziario nazionale.

Il 29 settembre si torna in aula per il processo con il rito abbreviato in corso davanti al giudice Marina Tommolini: qualche giorno fa i Ris hanno consegnato al magistrato il risultato dei nuovi accertamenti disposti su vestiti e scarpe dell’uomo. L’esito è stato lo stesso degli esami fatti un anno fa: su quegli abiti non c’è nessuna traccia di sangue. Nè di Melania, nè di Salvatore.

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