Teramo, processo bis per i tre rom dell’omicidio Fadani

Tutti a giudizio per il pugno dato all’amico della vittima la sera della tragedia L’accusa è quella di lesioni gravi, l’uomo si costituisce parte civile

TERAMO. L’omicidio Fadani è un caso giudiziario chiuso dal sigillo della Cassazione. Ma quella drammatica sera del 10 novembre 2009 torna protagonista di un altro processo che vede imputati i tre rom – oggi in carcere per scontare 10 anni per omicidio preterintenzionale in concorso – di lesioni gravi a Graziano Guercioni, l’amico che quella sera era con la vittima e che, sostiene l’accusa, venne colpito con un pugno. In questo procedimento l’uomo, assistito dall’avvocato Alessia Moscardelli, sarà parte civile.

A riavvolgere il nastro è il gup Domenico Canosa che ha rinviato a giudizio i tre giovani rom fissando al 14 aprile del prossimo anno la prima udienza del dibattimento. Il fascicolo bis (titolare il pm Laura Colica) si è formato nei mesi scorsi dagli atti rinviati alla procura teramana dai giudici della Corte d’assise d’appello che hanno riformato la sentenza di primo grado condannando a 10 anni per concorso in omicidio preterintenzionale Danilo Levakovic e Sante Spinelli, i due rom che quella sera di cinque anni fa erano con Elvis Levakovic, il giovane rom che sferrò il pugno mortale al 39enne imprenditore Emanuele Fadani. Di quello che successe la sera del 10 novembre di cinque anni fa (scatenando una serie di manifestazioni che per giorni infiammarono Alba), si tornerà nuovamente a parlare in un’aula di tribunale.

Un anno fa la Cassazione ha respinto i ricorsi dei tre rom confermando la sentenza di secondo grado. «La caratteristica che mette insieme il concorso morale dei tre», hanno scritto nelle motivazioni i magistrati dell’Aquila, «oltre al colpo sferrato da uno solo è l’agire congiunto». E’ questo agire congiunto è stato uno dei capisaldi dell’inchiesta della procura che nel rito abbreviato del primo grado aveva chiesto trent’anni per tutti e tre: un’azione collettiva e non individuale, maturata al termine di un litigio tra Fadani e un suo amico da una parte e i tre rom dall’altra. Un coinvolgimento morale che per la difesa dei due non c’è mai stato. Per i giudici di secondo grado (presidente del collegio Fabrizia Francabandera), così come aveva ipotizzato la procura teramana Fadani venne colpito con un calcio anche quando era a terra. Un colpo temporalmente collocato tra il pugno mortale e il momento del decesso , quando l’uomo era steso, ormai agonizzate, sull’asfalto. Quel calcio aveva provocato una ferita alla fronte che il consulente tecnico dell’accusa (per questo particolare sentito come teste anche dai giudici d’Appello) non ha ritenuto da correlarsi nè alla caduta a terra della vittima e nemmeno a manipolazioni fatte nei concitati momenti dei soccorsi. «La natura contusiva della ferita lascia pochi dubbi», è scritto a questo proposito nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, «sul fatto che la stessa è stata causata da un ulteriore colpo inferto alla vittima». Da chi dei tre non è stato possibile accertarlo. «Pur non essendovi indicazioni ricostruttive in ordine alla paternità del calcio», hanno sentenziato i magistrati, «è assai verosimile che esso sia stato inflitto proprio nel momento in cui la vittima si trovava a terra circondata dagli imputati».

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