Gli italiani che dissero no a Hitler
Un libro sui soldati internati nei lager nazisti per non aderire alla Rsi.
Alberto Pepe era un soldato teramano. Era nato nel 1910 e nella sua baracca compilò, giorno dopo giorno, un diario fatto di lettere d’amore alla moglie Rosina, fino a che gli stenti e i maltrattamenti non lo uccisero.
Era un soldato rinchiuso in un campo di concentramento nazista, Alberto Pepe, uno di quei militari che, dopo l’8 settembre 1943, disse di no a Hitler, come tanti novelli Bartleby, rifiutando l’arruolamento nell’esercito fascista della Rsi (Repubblica sociale italiana). Alle storie dimenticate di quegli italiani che resistettero al fascismo e al nazismo, senza essere partigiani, Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno dedicato un libro appena pubblicato da Einaudi: «Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945» (338 pagine, 20 euro).
Giornalista e studioso di storia contemporanea, Avagliano racconta quella silenziosa epopea in questa intervista al Centro.
Che cosa l’ha spinta a indagare questa parte della storia della Seconda guerra mondiale?
«Avevo già scritto un libro “Generazione ribelle”, sempre per Einaudi, in cui già si allargava lo sguardo sulle varie modalità in cui si è svolta la Resistenza in Italia. Cioè non solo quelle, più note, dei partigiani, dei gappisti nelle città del Nord, ma quella della Resistenza della società civile che videro tanti uomini e donne comuni aiutare ebrei ed ex prigionieri che cercavando di nascondersi. E, infine, quelle della Resistenza militare attraverso formazioni partigiane costituite da ex militari in collegamento con il governo Badoglio a Brindisi. Dopo l’8 settembre 1943 dei 2 milioni di italiani in armi, un milione fu catturato dai tedeschi. E di questi 650 mila, posti davanti al ricatto, decisero di non accettare l’arruolamento nella Repubblica sociale italiana e di restare, quindi, nei campi di concentramento. Il mio interesse, quindi, è più antico ed è volto a stabilire i confini nuovi e diversi della Resistenza che, in passato, era stata identificata come un movimento esclusivamente della sinistra».
Perché questa parte della Seconda guerra mondiale post 8 settembre è passata per lungo tempo sotto silenzio?
«Questo buco storiografico ha due cause principali. La prima: il patrimonio della Resistenza è diventato, nel dopoguerra, monopolio soltanto di una parte politica, la sinistra, anche se questo è avvenuto non subito, ma a partire dagli anni ’50 e ’60. L’altra causa sta nel fatto che era difficile identificare nei militari italiani una componente essenziale della Resistenza perché i militari erano quelli che avevano fatto le guerre cosiddette fasciste: Etiopia, Spagna e Secondo conflitto mondiale».
Ci sono altre ragioni che spiegano quel silenzio?
«Sì. Il ritorno in Italia di militari dai campi concentramento è stato difficile perché, mentre, per esempio, i partigiani avevano partecipato ai festeggiamenti per la Liberazione, loro tornarono, mesi dopo la fine della guerra, in un Paese che era ansioso soprattutto di voltare pagina. Loro stessi si chiusero, così, in un silenzio ostinato che hanno rotto solo negli ultimi due decenni».
Nella maggioranza dei casi, che cosa spinse questi soldati italiani a non aderire alla Repubblica di Salò?
«Le motivazioni generali riguardavano, sicuramente, il giuramento di fedeltà alla patria, nonostante la fuga ignominosa del re a Ortona, l’8 settembre, ma anche l’onore. C’era in loro un sentimento molto forte di odio e di rivalsa verso i tedeschi che - non dimentichiamolo - erano gli antichi nemici del Risorgimento: l’alleanza con la Germania nazista era stata mal digerita dal corpo dell’esercito. C’è poi che, durante l’internamento nei campi di concentramento, maturò in alcuni la consapevolezza della necessità di battersi per la liberazione della patria anche a costo della vita».
In che modo questa parte sottaciuta della storia italiana della seconda guerra mondiale cambia l’interpretazione del conflitto?
«Sicuramente la cambia. Il fatto di sottrarre centinaia di migliaia di soldati dal fronte dell’Asse spostò considerevolmente le sorti della guerra in favore degli Alleati e permise poi all’Italia, al tavolo della pace, di far pesare, oltre alla Resistenza dei partigiani, anche questo rifiuto netto dei nostri soldati di collaborare con i nazi-fascisti, affinché la nostra nazione fosse riconosciuta come cobelligerante a differenza della Germania».
Quale fra le testimonianzze raccolte per il libro l’ha commossa di più?
«C’è, per esempio, la storia di Nicola Sinesi che scrive alla moglie che è in attesa, e al bambino o alla bambina che sta per nascere, una lettera in cui emerge la speranza di incontrare il figlio. Un inconrto che non avverrà mai. Quel figlio è andato, per tutta la vita, alla ricerca di un padre di cui non aveva mai avuto più notizie per scoprire, a distanza di 40 anni, che era stato uno di quei soldati italiani che aveva detto no a Hitler ed era morto in un campo di concentramento».
Che cosa hanno da insegnare quelle lettere e quei diari agli italiani di oggi?
«Dal punto di vista storico ci insegnano che i documenti sono molto più importanti di mille dibattiti e polemiche. Dal punto di vista umano, ci dicono che anche nell’orrore dei campi di concentramento i nostri genitori e nonni seppero trovare motivi di umanità e di vita».
Era un soldato rinchiuso in un campo di concentramento nazista, Alberto Pepe, uno di quei militari che, dopo l’8 settembre 1943, disse di no a Hitler, come tanti novelli Bartleby, rifiutando l’arruolamento nell’esercito fascista della Rsi (Repubblica sociale italiana). Alle storie dimenticate di quegli italiani che resistettero al fascismo e al nazismo, senza essere partigiani, Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno dedicato un libro appena pubblicato da Einaudi: «Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945» (338 pagine, 20 euro).
Giornalista e studioso di storia contemporanea, Avagliano racconta quella silenziosa epopea in questa intervista al Centro.
Che cosa l’ha spinta a indagare questa parte della storia della Seconda guerra mondiale?
«Avevo già scritto un libro “Generazione ribelle”, sempre per Einaudi, in cui già si allargava lo sguardo sulle varie modalità in cui si è svolta la Resistenza in Italia. Cioè non solo quelle, più note, dei partigiani, dei gappisti nelle città del Nord, ma quella della Resistenza della società civile che videro tanti uomini e donne comuni aiutare ebrei ed ex prigionieri che cercavando di nascondersi. E, infine, quelle della Resistenza militare attraverso formazioni partigiane costituite da ex militari in collegamento con il governo Badoglio a Brindisi. Dopo l’8 settembre 1943 dei 2 milioni di italiani in armi, un milione fu catturato dai tedeschi. E di questi 650 mila, posti davanti al ricatto, decisero di non accettare l’arruolamento nella Repubblica sociale italiana e di restare, quindi, nei campi di concentramento. Il mio interesse, quindi, è più antico ed è volto a stabilire i confini nuovi e diversi della Resistenza che, in passato, era stata identificata come un movimento esclusivamente della sinistra».
Perché questa parte della Seconda guerra mondiale post 8 settembre è passata per lungo tempo sotto silenzio?
«Questo buco storiografico ha due cause principali. La prima: il patrimonio della Resistenza è diventato, nel dopoguerra, monopolio soltanto di una parte politica, la sinistra, anche se questo è avvenuto non subito, ma a partire dagli anni ’50 e ’60. L’altra causa sta nel fatto che era difficile identificare nei militari italiani una componente essenziale della Resistenza perché i militari erano quelli che avevano fatto le guerre cosiddette fasciste: Etiopia, Spagna e Secondo conflitto mondiale».
Ci sono altre ragioni che spiegano quel silenzio?
«Sì. Il ritorno in Italia di militari dai campi concentramento è stato difficile perché, mentre, per esempio, i partigiani avevano partecipato ai festeggiamenti per la Liberazione, loro tornarono, mesi dopo la fine della guerra, in un Paese che era ansioso soprattutto di voltare pagina. Loro stessi si chiusero, così, in un silenzio ostinato che hanno rotto solo negli ultimi due decenni».
Nella maggioranza dei casi, che cosa spinse questi soldati italiani a non aderire alla Repubblica di Salò?
«Le motivazioni generali riguardavano, sicuramente, il giuramento di fedeltà alla patria, nonostante la fuga ignominosa del re a Ortona, l’8 settembre, ma anche l’onore. C’era in loro un sentimento molto forte di odio e di rivalsa verso i tedeschi che - non dimentichiamolo - erano gli antichi nemici del Risorgimento: l’alleanza con la Germania nazista era stata mal digerita dal corpo dell’esercito. C’è poi che, durante l’internamento nei campi di concentramento, maturò in alcuni la consapevolezza della necessità di battersi per la liberazione della patria anche a costo della vita».
In che modo questa parte sottaciuta della storia italiana della seconda guerra mondiale cambia l’interpretazione del conflitto?
«Sicuramente la cambia. Il fatto di sottrarre centinaia di migliaia di soldati dal fronte dell’Asse spostò considerevolmente le sorti della guerra in favore degli Alleati e permise poi all’Italia, al tavolo della pace, di far pesare, oltre alla Resistenza dei partigiani, anche questo rifiuto netto dei nostri soldati di collaborare con i nazi-fascisti, affinché la nostra nazione fosse riconosciuta come cobelligerante a differenza della Germania».
Quale fra le testimonianzze raccolte per il libro l’ha commossa di più?
«C’è, per esempio, la storia di Nicola Sinesi che scrive alla moglie che è in attesa, e al bambino o alla bambina che sta per nascere, una lettera in cui emerge la speranza di incontrare il figlio. Un inconrto che non avverrà mai. Quel figlio è andato, per tutta la vita, alla ricerca di un padre di cui non aveva mai avuto più notizie per scoprire, a distanza di 40 anni, che era stato uno di quei soldati italiani che aveva detto no a Hitler ed era morto in un campo di concentramento».
Che cosa hanno da insegnare quelle lettere e quei diari agli italiani di oggi?
«Dal punto di vista storico ci insegnano che i documenti sono molto più importanti di mille dibattiti e polemiche. Dal punto di vista umano, ci dicono che anche nell’orrore dei campi di concentramento i nostri genitori e nonni seppero trovare motivi di umanità e di vita».