La scuola di oggi tra Youtube e bulli secondo Lodoli
You tube, scrutini, esami di stato, le gite, il bullismo, lo svilimento della cultura, il conformismo degli insegnanti, e poi i telefonini, le mode, gli abiti griffati, i percing, i tatuaggi, l’imperare dei valori del consumismo. Li ha toccati tutti i temi inerenti la scuola e il mondo adolescenziale lo scrittore Marco Lodoli, autore di «Crampi» ed altri romanzi di successo, ma in questo caso in gioco come insegnante. «Il rosso e il blu» (Einaudi, 155 pagine, 15 euro) è una raccolta di brani sulla scuola che tuttavia riesce, nell’inevitabile frammentarietà, a dire molto sul sistema scolastico.
In occasione dell’uscita del suo libro Lodoli ha rilasciato al Centro l’intervista che segue.
Il titolo del suo libro fa riferimento ai segni con cui gli insegnanti correggono i compiti scritti, ma si parla oltre che di errori anche di cuori. Non c’è contraddizione?
«Non mi sembra. La scuola è un campo che tende ad assorbire e a riflettere le contraddizioni della vita, è un luogo di errori, ma anche di passioni, di cose che non funzionano, e nello stesso tempo di sentimenti, di passione per la cultura e la vita, luogo di incontri, di innamoramenti».
Nel libro lei sostiene che non bisogna credere di essere sull’orlo dell’apocalisse, tuttavia dà un quadro pessimista della scuola.
«Non credo che la mia sia una visione pessimista. Certo, ho sottolineato le cose che non vanno, però io amo la scuola, mi piace stare in classe, condividere sentimenti, emozioni e idee con i ragazzi. Tuttavia, non posso non registrare un certo scadimento culturale negli ultimi anni, che poi è lo scadimento non solo della scuola, ma della società in genere, dove ormai il tema della cultura non è più centrale. Ciò si percepisce ovviamente anche nella scuola, per cui si fa fatica ad andare avanti con l’entusiasmo di un tempo, perché si avverte che la cultura è sempre meno importante, è meno importante fuori, nel sociale, ma di conseguenza anche nella scuola, poiché la scuola non può impedirsi di confrontarsi con il sociale. E’ un confronto che la vede perdente».
E infatti lei insiste molto sull’isolamento della scuola e dei suoi valori rispetto per esempio ai valori del consumismo. Ma non è un bene questo isolamento, non è una sacca di resistenza?
«Non la vedo così. In realtà la scuola è arretrata rispetto ai ritmi e ai desideri del mondo. Fa fatica a reggere l’urto che viene dal mondo esterno, e i primi a subirne le conseguenze sono gli alunni, oggi i più soggetti alle pressioni delle pubblicità e del marketing. Quando ero ragazzo a quell’età ci lasciavano in pace. Oggi no. Nel libro parlo di “grande pacco”: le offerte del mondo del business sono allettanti, e gli alunni sono vittime inevitabili. Di fronte a tutto questo la scuola mi sembra stia capitolando. Insomma, la situazione non è certo incoraggiante. Ma la cosa più grave è questa pressione esercitata sui ragazzi dal mondo del marketing. C’è stata una totale occupazione del loro immaginario, il che vuol dire della loro individualità. E’ qui che la scuola fallisce».
Nel libro lei parla anche degli strumenti didattici.
«Per me non sono importanti, e lo dico da insegnante. Parliamo della valutazione. Oggi si tende a misurare fino al centesimo la prova di uno studente, ma poi lo si perde come persona. Il professore diventa una specie di farmacista che misura le quantità di una sostanza in una medicina. Mi sembra una grossa sciocchezza. Dare troppo peso a tutto ciò, significa perdere di vista il cuore dell’insegnamento e dunque dell’apprendimento, che sta nella relazione tra insegnante e alunno, una relazione che deve essere nutrita di passione, di generosità intellettuale e sentimento. E’ qui che si fa scuola, nel rapporto passionale fra insegnante e allievo».
In occasione dell’uscita del suo libro Lodoli ha rilasciato al Centro l’intervista che segue.
Il titolo del suo libro fa riferimento ai segni con cui gli insegnanti correggono i compiti scritti, ma si parla oltre che di errori anche di cuori. Non c’è contraddizione?
«Non mi sembra. La scuola è un campo che tende ad assorbire e a riflettere le contraddizioni della vita, è un luogo di errori, ma anche di passioni, di cose che non funzionano, e nello stesso tempo di sentimenti, di passione per la cultura e la vita, luogo di incontri, di innamoramenti».
Nel libro lei sostiene che non bisogna credere di essere sull’orlo dell’apocalisse, tuttavia dà un quadro pessimista della scuola.
«Non credo che la mia sia una visione pessimista. Certo, ho sottolineato le cose che non vanno, però io amo la scuola, mi piace stare in classe, condividere sentimenti, emozioni e idee con i ragazzi. Tuttavia, non posso non registrare un certo scadimento culturale negli ultimi anni, che poi è lo scadimento non solo della scuola, ma della società in genere, dove ormai il tema della cultura non è più centrale. Ciò si percepisce ovviamente anche nella scuola, per cui si fa fatica ad andare avanti con l’entusiasmo di un tempo, perché si avverte che la cultura è sempre meno importante, è meno importante fuori, nel sociale, ma di conseguenza anche nella scuola, poiché la scuola non può impedirsi di confrontarsi con il sociale. E’ un confronto che la vede perdente».
E infatti lei insiste molto sull’isolamento della scuola e dei suoi valori rispetto per esempio ai valori del consumismo. Ma non è un bene questo isolamento, non è una sacca di resistenza?
«Non la vedo così. In realtà la scuola è arretrata rispetto ai ritmi e ai desideri del mondo. Fa fatica a reggere l’urto che viene dal mondo esterno, e i primi a subirne le conseguenze sono gli alunni, oggi i più soggetti alle pressioni delle pubblicità e del marketing. Quando ero ragazzo a quell’età ci lasciavano in pace. Oggi no. Nel libro parlo di “grande pacco”: le offerte del mondo del business sono allettanti, e gli alunni sono vittime inevitabili. Di fronte a tutto questo la scuola mi sembra stia capitolando. Insomma, la situazione non è certo incoraggiante. Ma la cosa più grave è questa pressione esercitata sui ragazzi dal mondo del marketing. C’è stata una totale occupazione del loro immaginario, il che vuol dire della loro individualità. E’ qui che la scuola fallisce».
Nel libro lei parla anche degli strumenti didattici.
«Per me non sono importanti, e lo dico da insegnante. Parliamo della valutazione. Oggi si tende a misurare fino al centesimo la prova di uno studente, ma poi lo si perde come persona. Il professore diventa una specie di farmacista che misura le quantità di una sostanza in una medicina. Mi sembra una grossa sciocchezza. Dare troppo peso a tutto ciò, significa perdere di vista il cuore dell’insegnamento e dunque dell’apprendimento, che sta nella relazione tra insegnante e alunno, una relazione che deve essere nutrita di passione, di generosità intellettuale e sentimento. E’ qui che si fa scuola, nel rapporto passionale fra insegnante e allievo».