Domani in regalo col Centro il libro: “La cucina dei pastori”  30 ricette della transumanza

La transumanza e la civiltà dei tratturi costituiscono capitoli fondamentali di una storia passata, e per sempre conclusa, che ha visto coinvolta l’intera vita economica, sociale, politica e...

La transumanza e la civiltà dei tratturi costituiscono capitoli fondamentali di una storia passata, e per sempre conclusa, che ha visto coinvolta l’intera vita economica, sociale, politica e culturale del Meridione italiano compreso tra l’Appennino e la costa adriatica. Abruzzo incluso.
Protagonisti di questa vicenda millenaria sono stati gli ovini e i pastori: i primi hanno rappresentato il capitale prezioso da accudire per garantire e accrescere la ricchezza dei proprietari armentari; i secondi hanno rappresentato l’imprescindibile fattore umano che ha fatto sì che le pecore diventassero il cespite più importante per i luoghi e le comunità disposte lungo le vie della lana. Un fattore umano perennemente diviso tra montagna e Tavoliere, famiglia e lavoro, società degli uomini e solitudine dei pascoli. Il tutto in un ciclo ininterrotto di partenze e di ritorni di cui D’Annunzio ha cantato l’epica esistenza.
Ma cos’è la transumanza e che rapporti ha espresso con il cibo e le tradizioni gastronomiche abruzzesi? La transumanza, com’è noto a tutti, è una particolare pratica zootecnica di antichissima origine e di estesa distribuzione geografica. Sebbene tale forma di allevamento riguardi varietà differenti di bestiame, per gli abruzzesi dire transumanza ha significato dire essenzialmente pastorizia, meglio ancora, pastorizia itinerante. Un significato che trova conferma nella stessa etimologia del termine derivante dalla fusione delle due espressioni latine trans e humus che vogliono dire: andare oltre, andare al di là della terra, della terra in cui si risiede; e naturalmente farvi ritorno. Ma la transumanza non è solo una forma di allevamento basato sullo spostamento stagionale delle greggi dai pascoli di montagna ai pascoli di pianura a seconda delle condizioni climatiche e delle conseguenti disponibilità di erbaggi. È, o meglio, è stata, qualcosa di più complesso e soprattutto di più impegnativo che ha richiesto un’organizzazione industriale se non addirittura capitalistica del lavoro. Una organizzazione le cui destinazioni pratiche vanno oltre l’autoconsumo o il semplice sostentamento dell’economia domestica, bensì un’organizzazione le cui finalità produttive hanno riguardato soprattutto il mercato e il profitto. E lo strumento capace di garantirli sono state la pecora e le greggi, vere e proprie “macchine rigeneratrici” capaci di convertire la cellulosa in proteine, la lana in tessuti e il letame in fertilizzante per i campi. Il tutto biologicamente, autonomamente e all’insegna della sostenibilità. Se si vuole immaginare come dovesse essere in passato la transumanza non si deve pensare a dei singoli pastori che, ciascuno per conto proprio, traevano in autunno le greggi dagli ovili e le conducevano verso i pascoli di Puglia per poi riportarle in primavera verso casa. Al contrario, si deve pensare a lunghe e animate carovane composte di centinaia di greggi e di decine di migliaia di capi di bestiame al cui seguito si muovevano numerosi uomini a piedi, a cavallo, o con i carri. Uomini impegnati nelle mansioni di massari, sotto-massari, pastori, pastoricchi, butteracchi, casari e tutti al servizio di facoltosi datori di lavoro da cui ricevevano per il lavoro svolto un salario in denaro e una parca dotazione in cibo. Tanto parca che se una pecora moriva le sue carni, anziché essere mangiate in loco dai malnutriti pecorai, dovevano essere disossate, salate, essiccate al sole e restituite al padrone per il proprio beneficio. Questa peculiarità relativa alla “invenzione” della misischia (oggi ricercato prodotto PAT) permette di appropinquarsi alle particolari connessioni che la transumanza ha avuto con il cibo e con le tradizioni gastronomiche abruzzesi, molte delle quali scomparse o residuanti in luoghi assai circoscritti.
Dal punto di vista alimentare e da quello dei suoi protagonisti umani la transumanza ha significato soprattutto sacrificio, precarietà, esclusione dal beneficio gastronomico del prodotto generato dalle proprie fatiche. Perché se è vero che dalle pecore si ricavavano quantità enormi di latte, formaggi e carne (ma non sotto forma di arrosticini, prodotto novecentesco della pastorizia stanziale), è altrettanto vero che tutto questo ben di dio era appannaggio esclusivo dei proprietari delle greggi e non dei pastori che ne governavano il pascolo. Costoro, per la dura fatica sopportata, oltre alla misera paga avevano diritto a un quantitativo definito di pane, di olio e di sale. Tutto il resto che poteva essere mangiato era conseguenza del caso e della fantasia. Simile concatenazione di fattori ha fatto sì che la gastronomia della transumanza sia stata una gastronomia povera, di risulta, di furbizia e di sotterfugi. Quegli stessi sotterfugi che hanno dato luogo a sobri pancotti, a parsimoniose acquecotte, a frugali papponi realizzati con tutto quanto di commestibile poteva essere messo a cottura, insaporendolo con erbe di campo (tarassaco, silene, caccialepre, santoreggia e orapi che le stesse pecore provvedevano opportunamente a fertilizzare), pezzetti di lardo e, in casi non rari, con “sapide” pietre di mare. Ma i sotterfugi dei pastori, oltre a rendere gustoso quel poco di mangiabile che il caso e la natura mettevano loro a disposizione, consentivano di assicurarsi anche qualcosa di fortuito con cui variare nascostamente la loro monotonia alimentare. È il caso della rinomata “pecora aglio cotturo”, oggi preparata con animali a fine carriera ma in origine realizzata con giovanissimi agnelli che inaspettati parti gemellari mettevano a disposizione delle scarne diete senza che il padrone potesse rendersi conto dell’ammanco.
In ogni caso la transumanza, oltre ad aver rappresentato un fondamentale strumento di sviluppo per le economie dell’Italia appenninica e meridionale, è stata anche un formidabile volàno di civiltà in grado di favorire lo scambio e la diffusione di idee, pratiche di culto, gusti estetici, tendenze artistiche. E le tracce di una simile vicenda storica, di cui i pastori sono stati i principali protagonisti, sono tuttora leggibili nei retaggi tradizionali delle regioni coinvolte nell’allevamento itinerante. Malauguratamente, di questa ampia esperienza umana che ha attraversato i lunghi evi della vita abruzzese non rimangono che poche tracce sparse nel territorio (piccole chiese tratturali, ruderi di "poste"), nel patrimonio culturale (forme di pellegrinaggio, inflessioni linguistiche, elementi narrativi) e nelle pratiche gastronomiche locali. Pratiche che i recenti orientamenti legati al business turistico e alle istanze neo-folkloriche stanno già da alcuni anni cercando di ricomporre, di rivalorizzare e di riproporre all’esperienza del gusto.
*antropologo Università
di Roma Tor Vergata