Alfredo Oriani Lo scrittore riscoperto da Croce
Nel corso della sua vita Alfredo Oriani (1852-1909) fu famoso soprattutto per il carattere astioso e intrattabile: recriminava contro il mondo, che non aveva saputo apprezzare il suo genio. Quando morì, nel 1909, cento anni fa, nella sua casa di Casola Valsenio, una cascina nei pressi di Faenza chiamata il Cardello, quella solitudine improvvisamente si popolò, si fece rumorosa, caotica. Benedetto Croce per primo riscoprì i suoi romanzi, «Vortice» (1899), «Olocausto» (1901), «La disfatta» (1896), e la monumentale opera sulla storia italiana, «La lotta politica in Italia» (1892).
Poi arrivarono i giovani nazionalisti, che lo consideravano un precursore per la sua esaltazione del colonialismo. Mussolini se ne impadronì: organizzò una marcia del Cardello e post mortem fece indossare a Oriani la camicia nera, curando la stampa dell’«Opera omnia» per l’editore Cappelli. Poi, nel secondo dopoguerra Giovanni Spadolini si è incaricato di liberare l’opera orianiana dalla pesante ipoteca fascista, evidenziandone le radici mazziniane. Nel centenario dalla morte dello scrittore faentino la fondazione Casa di Oriani, diretta da Dante Bolognesi, ha organizzato un convegno sull’eredità letteraria e sul rapporto tra popolo e legittimazione della sovranità politica, (si veda riquadro a lato).
Oriani esordì come scrittore negli anni Settanta, una fase drammatica dell’Italia postunitaria dopo la presa di Roma e il ritorno a una difficile normalità, provando a cavalcare l’onda del feuilleton e delle appendici popolari con romanzi come «Memorie inutili» (1876), «Al di là» (1877), «No» (1881), storie cariche di torbida e perversa sensualità che anticipano, anche nel decoro stilistico, le caratteristiche sonorità della narrativa dannunziana. Dopo una serie di insuccessi si rivolse al mercato della politica, con il pamphlet «Fino a Dogali» (1889), nel quale esaltava l’espansione coloniale italiana in Africa, e con il suo libro più impegnativo, «La lotta politica in Italia» (1892). «La Lotta politica» è un ordigno teoretico di 600 pagine, destinate a coprire l’arco di 14 secoli di storia italiana, incastonato dentro una scrittura densa e soffocante. Oriani scava nel passato per cercare le linee di fuga del presente che a suo giudizio sono sostanzialmente due: la politica delle nazionalità, in chiave irredentista e anti-austriaca, e lo sviluppo di un sistema di colonie in Africa mediante una politica estera aggressiva.
In quel periodo però l’Italia si alleò con l’Austria e accantonò i propositi di espansione coloniale dopo il disastro di Adua. Così Oriani passò di moda, gli anni Novanta furono i peggiori della sua vita, gravidi di amarezza per l’abbandono e l’isolamento a cui si sentiva condannato. Fu una catastrofe anche sul piano degli affetti familiari, devastati dalla gelosia, dalla rottura dei rapporti con la sorella e dalla morte del padre. In queste condizioni scrisse i suoi migliori romanzi, tre o quattro capolavori che basterebbero, da soli a garantirgli un posto nelle storie della letteratura. «Vortice» racconta l’ultima giornata di un suicida, Adolfo Romani, un piccolo borghese che si è rovinato per saziare le pretese di lusso della sua amante.
Erotismo degradato, quasi per l’ossessione del protagonista di infliggersi dolorose umiliazione, sullo sfondo anonimo e benpensante della provincia, fino alla morte cercata per non affrontare il processo per debiti e lo scandalo. Ma la novità è da cercare nella scrittura asciutta, disadorna, che sgocciola sulla pagina con un ritmo freddo e sempre uguale. Nei primi anni del Novecento Oriani fu assorbito da due nuove attività: il giornalismo (per Il resto del Carlino) e il teatro. In entrambi i campi non ottenne i riscontri sperati, rimase sempre un intellettuale e un artista di secondo piano, anche se alcune pièce ottennero un discreto successo furono portate in scena da buone compagnie teatrali.
Oriani diventerà attuale soltanto dopo la morte, avvenuta nel 1909. La guerra di Libia fu decisiva per il suo sdoganamento politico. La sua ultima opera, «La rivolta ideale», presenta una spuria riedizione della visione mazziniana calata dentro un lessico nietzschiano. Il suo pensiero intreccia i temi del populismo, del rapporto tra élite e governati, della difficile costruzione della identità nazionale.
Per questo, a ogni svolta della nostra storia (l’invasione coloniale della Libia, la Grande Guerra, il Fascismo, la Repubblica), il nome di Oriani torna a circolare con rinnovato interesse tra gli studiosi.
Poi arrivarono i giovani nazionalisti, che lo consideravano un precursore per la sua esaltazione del colonialismo. Mussolini se ne impadronì: organizzò una marcia del Cardello e post mortem fece indossare a Oriani la camicia nera, curando la stampa dell’«Opera omnia» per l’editore Cappelli. Poi, nel secondo dopoguerra Giovanni Spadolini si è incaricato di liberare l’opera orianiana dalla pesante ipoteca fascista, evidenziandone le radici mazziniane. Nel centenario dalla morte dello scrittore faentino la fondazione Casa di Oriani, diretta da Dante Bolognesi, ha organizzato un convegno sull’eredità letteraria e sul rapporto tra popolo e legittimazione della sovranità politica, (si veda riquadro a lato).
Oriani esordì come scrittore negli anni Settanta, una fase drammatica dell’Italia postunitaria dopo la presa di Roma e il ritorno a una difficile normalità, provando a cavalcare l’onda del feuilleton e delle appendici popolari con romanzi come «Memorie inutili» (1876), «Al di là» (1877), «No» (1881), storie cariche di torbida e perversa sensualità che anticipano, anche nel decoro stilistico, le caratteristiche sonorità della narrativa dannunziana. Dopo una serie di insuccessi si rivolse al mercato della politica, con il pamphlet «Fino a Dogali» (1889), nel quale esaltava l’espansione coloniale italiana in Africa, e con il suo libro più impegnativo, «La lotta politica in Italia» (1892). «La Lotta politica» è un ordigno teoretico di 600 pagine, destinate a coprire l’arco di 14 secoli di storia italiana, incastonato dentro una scrittura densa e soffocante. Oriani scava nel passato per cercare le linee di fuga del presente che a suo giudizio sono sostanzialmente due: la politica delle nazionalità, in chiave irredentista e anti-austriaca, e lo sviluppo di un sistema di colonie in Africa mediante una politica estera aggressiva.
In quel periodo però l’Italia si alleò con l’Austria e accantonò i propositi di espansione coloniale dopo il disastro di Adua. Così Oriani passò di moda, gli anni Novanta furono i peggiori della sua vita, gravidi di amarezza per l’abbandono e l’isolamento a cui si sentiva condannato. Fu una catastrofe anche sul piano degli affetti familiari, devastati dalla gelosia, dalla rottura dei rapporti con la sorella e dalla morte del padre. In queste condizioni scrisse i suoi migliori romanzi, tre o quattro capolavori che basterebbero, da soli a garantirgli un posto nelle storie della letteratura. «Vortice» racconta l’ultima giornata di un suicida, Adolfo Romani, un piccolo borghese che si è rovinato per saziare le pretese di lusso della sua amante.
Erotismo degradato, quasi per l’ossessione del protagonista di infliggersi dolorose umiliazione, sullo sfondo anonimo e benpensante della provincia, fino alla morte cercata per non affrontare il processo per debiti e lo scandalo. Ma la novità è da cercare nella scrittura asciutta, disadorna, che sgocciola sulla pagina con un ritmo freddo e sempre uguale. Nei primi anni del Novecento Oriani fu assorbito da due nuove attività: il giornalismo (per Il resto del Carlino) e il teatro. In entrambi i campi non ottenne i riscontri sperati, rimase sempre un intellettuale e un artista di secondo piano, anche se alcune pièce ottennero un discreto successo furono portate in scena da buone compagnie teatrali.
Oriani diventerà attuale soltanto dopo la morte, avvenuta nel 1909. La guerra di Libia fu decisiva per il suo sdoganamento politico. La sua ultima opera, «La rivolta ideale», presenta una spuria riedizione della visione mazziniana calata dentro un lessico nietzschiano. Il suo pensiero intreccia i temi del populismo, del rapporto tra élite e governati, della difficile costruzione della identità nazionale.
Per questo, a ogni svolta della nostra storia (l’invasione coloniale della Libia, la Grande Guerra, il Fascismo, la Repubblica), il nome di Oriani torna a circolare con rinnovato interesse tra gli studiosi.