Bibbia scritta come un tweet

12 Dicembre 2013

Ravasi: «La parola è essenziale e incisiva come un messaggio scolpito nella pietra»

di Federica D’Amato

È cominciata ieri l’edizione 2013-2014 delle Quaestiones quodlibetales con il cardinale Gianfranco Ravasi, a Chieti, ospite dell’arcivescovo Bruno Forte e del rettore Carmine D’Ilio dell’Università G. d’Annunzio, accademia la cui aula di rettorato in via dei Vestini è ormai divenuta sede storica delle “quaestiones”, incontri che nascono con il preciso intento di far dialogare su tematiche diverse i due fronti della ragione e della fede, rappresentati di volta in volta da figure di altissimo profilo intellettuale.

La sala è stracolma sin dal primo pomeriggio per ascoltare le parole di uno degli uomini di chiesa più conosciuti e apprezzati in Europa, anche dal mondo laico, per i suoi numerosi interventi mediatici, soprattutto su twitter. Introduce con i saluti istituzionali il professor Carmine D’Ilio, che entra subito nel merito della quaestio del giorno, quella della Bibbia come “grande codice”, affermando come un tale riconoscimento non potrebbe essere che costitutivo il nostro essere occidentali, sia dal punto di vista scientifico che artistico e spirituale.

In seguito è monsignor Bruno Forte a prendere la parola. Il teologo napoletano individua sin dal principio quello che è il nucleo incandescente del nostro essere uomini ovvero del nostro essere occidentali: quel nucleo è la parola. Ma, attenzione, Forte mette in guardia dal fascino della parola perché l’epoca moderna con la sua straordinaria fiducia nella ragione si è ammalata di logocentrismo, come se il mondo dovesse essere portato tutto alla chiarezza dell’idea per tradurla interamente, poi, in storia; sappiamo a quali derive totalitarie ha portato tale fanatismo se «parole come pietre» è stata una espressione nella quale si è creduto fermamente durante i periodi rivoluzionari, potenza della parola per manipolazione, il coagulo del consenso. Con la caduta dei grandi mondi ideologici anche questa fiducia sconfinata sembra essere venuta meno e il vuoto che ha lasciato ha provocato un senso di disagio intraducibile, inconsolabile; la strada verso il definitivo abbandono dei grandi racconti e delle parole magiche del passato mitologico sembra essere ormai ineluttabile. Tale deperimento ovviamente è avvenuto anche nei confronti della parola cristiana, e allora la grande domanda di Bruno Forte è questa: come presentare la grande parola di Dio in questo spaesamento post-moderno, in questa crisi della comunicazione globale? Una domanda dalla quale partire, soprattutto partire dalla parola che la Bibbia contiene, che non è mai solo parola ma anche il suo rovescio di silenzio, come esilio della parola. Edificio bellissimo la bibbia, sospeso tra certezza conciliante e incertezza totale: il dio dei ponti sospesi, della parola ed il dio dell’arcata spezzata, il dio che lascia muta la propria parola e che proprio per questo ci inquieta. Perché allora questo stare insieme di parola e silenzio?

L’unica risposta consolante è quella ebraica, quella che ci dice come il silenzio della parola di dio è semplicemente lo spazio della libertà, una parola percorsa dal silenzio che ci lascia liberi, ci rende più umani; ecco, questa parola, conclude Forte, non è logocentrica, è l’unica che ci resta e a testimoniarcela oggi è presente un suo servitore d’eccezione, Gianfranco Ravasi, al quale viene data voce per la seconda quaestio.

Il cardinale lombardo si lancia in un felice ex-cursus citazionistico che intende, in premessa di tesi, anticipare la centralità della Bibbia come codice effettivo della cultura europea e rafforzare le affermazioni di Forte sulla parola. Ravasi per iniziare cita l’incipit del volume “Il grande codice” dello studioso canadese Norton Fray: «Le sacre scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XIX secolo e stanno ancora in larga misura operando»; e prosegue citando l’Aurora di Nietzsche, i Pensieri di Blaise Pascal, Goethe, Kant, Chagall e infine Umberto Eco, al fine di dimostrare come anche i più grandi personaggi della nostra cultura, credenti e non, hanno posto al centro della propria lingua la parola materna delle sacre scritture.

Citazione introduttive e illustrative il grande codice, il grande lessico, la grande stella polare che è appunto la Bibbia, «in sé è testo fortemente culturale che non solo provoca cultura, ma è cultura in sé e proprio attraverso la parola riusciamo a comprenderne il motivo». Di siffatta parola, prosegue Ravasi intende illustrare solo un aspetto in modalità triforme, prendendo in lettura la prima pagina del Genesi. Il primo aspetto è quello di una parola efficace, se è scritto che “sia la luce e la luce fu”, creazione dunque come evento sonoro, non una lotta, semplicemente una parola, dunque ecco il primo elemento, l’efficacia della prima parola che ha in sé una dimensione performativa, non soltanto informativa, trasforma la realtà stessa». Afferma Ravasi che tale parola «è incisiva come un tweet, proprio come un piccolo messaggio scolpito nella pietra che nella propria essenzialità resta e arriva diritto al cuore dell’enigma». Il secondo aspetto della parola biblica è quella espressa dall’estetica del «e dio vide che era cosa buona», sempre seguendo il Genesi, dunque parola come esperienza visiva ovvero simbolica, arsenale d’immagini di cui le scritture sono piene. Il terzo aspetto della parola sacra è la sua corporalità, la sua fisicità, se è scritto che «dio creò i cieli e la terra», creazione come lavoro fisico ma da artista, da scultore, come il genio che toglie per dare forma. Questa trilogia modale dell’espressività della parola biblica sta alla base della profonda densità culturale che il testo detiene, cultura insita ma anche cultura generata, perpetuata e continuamente rinnovata attraverso una civiltà che, in un mutuo scambio, ha attinto la propria struttura spirituale e politica alla grande novella, a quel parlare e tacere insieme che Dio fa con l’uomo, ma sempre in ascolto, presente.

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