La biologa che ha disegnato il nuovo albero della vita

Dalla sua Pizzoferrato a Bologna, poi a Milano, a Heidelberg e ora a Londra «Studio lo sviluppo dei tumori e la loro regressione attraverso i geni mutati»

di Stefania Sorge

E’ nata a Pizzoferrato (Chieti) la ricercatrice che studia l’“età” dei geni. Francesca Ciccarelli, 40 anni, è una delle autrici del nuovo albero della vita, cioè una ricostruzione dei rapporti evolutivi tra le specie viventi, studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’European Molecular Biology Laboratory di Heidelberg, in Germania, e pubblicato nel 2006 sulla rivista Science.

«Ad Heidelberg ho lavorato in un campo di frontiera come la genomica comparativa, cioè il confronto delle sequenze di Dna di organismi diversi per capire come evolvono nel tempo», spiega la giovane ricercatrice abruzzese. «Durante quel periodo è stata rilasciata la prima sequenza del genoma umano e il mio laboratorio ha contribuito ad analizzarla. Con tutti i genomi disponibili abbiamo ricostruito il primo albero filogenetico con centinaia di specie, dai batteri all’uomo».

Professoressa Ciccarelli, nel 2005 è rientrata in Italia, all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Qui di cosa si è occupata?

«A Milano ho coordinato un gruppo di ricerca che studia come i tumori evolvono grazie alle mutazioni che acquisiscono nel loro genoma e che danno loro dei vantaggi rispetto alle cellule non mutate. In questi anni abbiamo scoperto che i geni mutati sono o molto antichi, cioè rintracciabili anche nei batteri, oppure sono relativamente nuovi. Queste due categorie di geni svolgono ruoli molto diversi: i primi sono essenziali per il funzionamento della cellula, mentre i secondi si occupano di regolare i processi biologici. È come se il processo di formazione dei tumori fosse stato inventato due volte nel corso dell’evoluzione. Nel nostro ultimo lavoro, che esce in questi giorni sulla rivista Cell Reports, dimostriamo che il blocco di copie dei geni mutati provoca la regressione del tumore, ma non colpisce le cellule sane. Questo è un esempio di terapia mirata solo al tumore che riduce gli effetti collaterali».

Nella sua esperienza lavorativa, in Italia e all’estero, ha mai notato differenze tra ricercatori donne e ricercatori uomini?

«Riguardo alla difficoltà per una donna di raggiungere posizioni apicali purtroppo sono innegabili e diffuse sia in Italia che all’estero. Qualche tempo fa ho partecipato ad un gruppo di studio dell’Unione europea per monitorare la situazione delle donne nella scienza. Dati consolidati mostrano che le ragazze che intraprendono il dottorato, cioè il primo passo della carriera di ricercatore, sono più numerose, e spesso anche più brave, dei colleghi maschi. A fronte di ciò, le donne che scalano la piramide e diventano professori, capi di laboratorio o di istituto sono in netta minoranza. Sicuramente il nostro è un lavoro difficile da conciliare con la famiglia. Direi, però, che il problema più grosso è il “soffitto di cristallo”: per un uomo è più facile raggiungere posizioni ritenute di potere e che generalmente vengono assegnate da altri maschi. Per quanto mi riguarda devo dire che finora non ho subito grosse discriminazioni di genere. Non nascondo, però, che spesso mi capitano riunioni in cui sono l’unica donna, e per di più giovane. In quelle occasioni bisogna puntare i piedi per farsi ascoltare e non essere confusa con la tappezzeria!».

In base alla sua esperienza, come viene percepita la ricerca italiana all’estero?

«Nonostante i proclami di rito, la scienza non è di fatto vista come uno dei motori del processo economico. Il ricercatore è identificato con un sognatore, spesso anche un po’ sfigato, che fa delle cose incomprensibili e di dubbia utilità. Le politiche scientifiche di Paesi con economie consolidate o emergenti dimostrano che questa è chiaramente una visione miope. Appena eletto e nel periodo più buio dell’economia americana, Obama ha aumentato i fondi destinati alla ricerca. Recentemente la Cina ha istallato il più grande centro di genomica al mondo e io stessa sono stata reclutata nell’ambito di un processo di valutazione del sistema universitario inglese che premia le università che riescono ad attrarre professionisti dall’estero».

Cosa ne pensa del fenomeno della “fuga di cervelli”?

«L’espressione mi ha fatto sempre ridere, in realtà in genere molti cervelli fuggono perché il loro stomaco è vuoto... Io penso che cambiare periodicamente aria, laboratorio o istituto sia fondamentale e sano nel nostro lavoro, perché aiuta a ritrovare entusiasmo e nuove idee. Il problema è che a fronte di tanti che partono, ne arrivano pochi o quasi nessuno. Penso che un cambio di rotta nel modo in cui la scienza è percepita e finanziata in Italia non solo sarebbe utile ai ricercatori italiani ma potrebbe contribuire alla rinascita di tutto il Paese».

Qual è il suo rapporto con l’Abruzzo? Pensa che in futuro tornerà a viverci?

«La mia vita è talmente mobile che è difficile fare previsioni a lungo termine. Però io mi sento profondamente abruzzese e fieramente montanara. Il più grande regalo di nascere e crescere a 1.200 metri è acquisire uno sguardo concreto e anche un po’ ruvido sulle cose, che in più di una situazione mi ha permesso di non perdermi nei dettagli e di andare dritta al cuore delle questioni. Mi piace pensare che questa concretezza mi viene dalla roccia della nostra torre, dalla mia Pizzoferrato».

. ©RIPRODUZIONE RISERVATA