Mangiare povero e autentico Trionfa la cucina contadina
L’antopologo Ernesto Di Renzo presenta il suo libro su come è cambiata la gastronomia abruzzese ai tempi della crisi e della ricerca della genuinità
AVEZZANO. Il pane nero che diventa cibo quasi d’élite, i torcinelli, il mussillo o la busecca, snobbati dai più che conquistano la ribalta sulla tavola. Anche attraverso quelle che sembrano apparenti contraddizioni nasce l’idea di un libro che racconta il "Mangiare l'autentico. Cibo e alimentazione tra revivalismi culturali e industria della nostalgia", scritto dall’antropologo marsicano Ernesto Di Renzo, edito dalla casa editrice romana Universitalia. Il volume verrà presentato domenica prossima alle ore 18 nella sede Arssa di Avezzano, nell’ambito della manifestazione “Pagine aperte”, organizzata dall’associazione Adsumus quoque.
I torcinelli sono budella d'agnello ripiene di animelle sempre d'agnello, il mussillo, sia esso di baccalà o di stocco, è la parte migliore del pesce, ricavata dalla sua groppa, mentre la busecca è la trippa in umido. Sapori antichi e nuovissimi allo stesso tempo se consideriamo che il loro uso sta riprendendo piede negli ultimi tempi. Una sorta di riscoperta del cibo dei nostri nonni.
Ernesto Di Renzo è docente di discipline antropologiche all’università di Roma Tor Vergata dove coordina master, corsi di formazione e attività di ricerca di indirizzo specialistico. Svolge collaborazioni con diverse istituzioni pubbliche e private e conduce un’intensa attività comunicativa ed editoriale su tematiche inerenti le dimensioni culturali dei comportamenti collettivi.
Perché questo libro?
«La curiosità, non c’è dubbio. Curiosità dettata, in qualità di studioso, dai comportamenti collettivi, nella veste di consumatore, in quanto subissato di continuo da proposte gastronomiche ad elevata promessa di autenticità. Piatti come le virtù, i torcinelli, il mussillo o la busecca, che fino a qualche anno fa venivano ritenute scadenti, oggi trovano un’offerta sempre più diffusa nei menu dei ristoranti considerati più à la page, arrivando a costare cifre ragguardevoli che non hanno nulla a che vedere con il valore della materia prima utilizzata; oppure capire come mai il cibo casareccio, le osterie tipiche, i mercati contadini o le sagre paesane riscuotano così grande consenso nei gusti delle persone, soprattutto giovani e di estrazione urbana».
Un discorso a parte merita il pane nero, quello che fa tornare alla memoria i tempi di guerra, quando la farina bianca era merce rara.
«Il pane nero, che per lunghissimo tempo ha rappresentato il solo nutrimento di chi non poteva permettersi l'agognato pane bianco, il cosiddetto pane dei signori, non solo costa cifre mediamente superiori a questo, ma viene consumato soprattutto in contesti sociali caratterizzati da abbienza economica ed elevato capitale culturale»
Fra gli aspetti che più colpiscono del suo libro c'è quello del rapporto intenso che intercorre tra cibo e identità.
«Che tra cibo e identità intercorrano legami assai stretti, ce lo suggerisce, tra le altre cose, il modo in cui, spesso, si procede a stereotipizzare gli altri sulla base dei loro gusti alimentari. In base a questi stereotipi noi italiani veniamo etichettati come "maccheroni"; i tedeschi come "mangia-crauti"; i francesi come "mangia-rane"; gli spagnoli come “mangia-fagioli”, i californiani come "granola", per via della loro passione per il muesli; gli inuit come "eschimesi", che nel dialetto algonchino vuol dire mangiatori di carne cruda. Scendendo poi di scala i settentrionali vengono bollati come "polentoni"; i bolognesi come "mortadella", e in Abruzzo gli ortucchiesi come "ranocchiari"; gli scurcolani come "cipollari" e gli avezzanesi come me come "patanari", per via della nota attitudine che hanno con la produzione e il consumo delle patate. Al riguardo si pensi a come i calabresi amino pensarsi in associazione al peperoncino, i napoletani alla pizza, i milanesi al panettone, i liguri al pesto, i civitellesi marsicani alla castagna e via dicendo».
Quale significato assume oggi il concetto di autenticità rispetto al discorso gastronomico?
«Direi che l'autenticità può essere vista come una sorta di "uscita di sicurezza" in grado di attuare, su scale locali, un riscatto dei gusti da pericolose derive esterofile e ipercolesteroliche. In questo modo fiadoni, nivole, scripelle m'busse, pancotto, miscischia, acquesale, pizza e'mnestra, hanno progressivamente guadagnato le caratteristiche di un mangiare buono e sano capace di riconnettere il gusto con le tradizioni, le ricette con le stagioni, gli appetiti con la salute, gli stomaci con le cittadinanze, secondo consuetudini depositatesi nella storia gastronomica di ciascun territorio».
Una riscoperta dell’antico, del cibo che fu, della genuinità in contrapposizione all’omologazione?
«Non dobbiamo più sentirci smarriti dinanzi al dilagare dei conformismi consumistici che impongono ovunque gli stessi modelli del vestire, dell'acquistare, dello svagarsi, dell'ascoltare musica e, non ultimo, del mangiare. Significa, in poche parole, voler ritrovare un luogo e un tempo della semplicità, dell'originalità e della pienezza di vita che il presente dimostra di non possedere e che solo il passato, specie quello delle campagne e delle tradizioni contadine, sembra in grado di restituire. È quella che potremmo definire la "sindrome dell'età dell'oro" e che in tutti i momenti della storia ha indotto gli uomini a proiettare indietro nel tempo i concetti di bello, di buono, di genuino e naturalmente di autentico».
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