1703: SGRAVI FISCALI PER DIECI ANNI E COPRIFUOCO DI NOTTE

Il Guido Bertolaso di più di trecento anni fa si chiamava Marco Garofalo marchese della Rocca.

L’AQUILA. Monsignor Orlando Antonini, 64 anni, è nato a Villa Sant’Angelo, uno dei paesi più colpiti dal terremoto. Il sei aprile ha perso molti parenti. Ordinato sacerdote nel 1968 è stato per un decennio parroco di Picenze. Formazione diplomatica presso la Pontificia Accademia ha fatto esperienze come segretario in diverse Nunziature apostoliche: Bangladesh, Madagascar, Siria, Olanda, Francia e Cile. Nel 1999 l’ordinazione episcopale e l’affidamento della Nunziatura in Zambia e Malawi. Ad agosto papa Benedetto XVI gli ha affidato la Nunziatura apostolica in Serbia. Monsignor Antonini è tra i più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo.

L’AQUILA. Del sisma del 2 febbraio 1703, il quarto di carattere distruttore nella storia dell’Aquila, sappiamo molto più rispetto agli analoghi precedenti del 1461, del 1349 e del 1315. Di esso si hanno varie relazioni, ad esempio il «Raguaglio» sottoposto all’autorità regnicola dai maggiorenti cittadini a tre mesi dal terremoto, i cui testi riferiscono anche di impressionanti fenomeni naturali concomitanti. Dai soli dati storici, bibliografici ed archivistici editi - essenzialmente quelli registrati dal Colapietra in Antinoriana III - si può seguire abbastanza, ad utile istruzione per l’oggi nelle sue differenze ma anche in non poche curiose assonanze ambientali, il lungo processo di ricostruzione settecentesca della città, con i caratteri, qui appresso riassunti, che se ne evidenziano. Dapprincipio, allora come oggi il governo centrale si attivò per organizzare l’emergenza.

Assieme all’ordine dato al vicario generale della Provincia duca d’Atri, nonché al preside aquilano, di «dar tutti li agiuti e ripari che convengano, avvalendosi del denaro della cassa del percettore ed altro» disponeva il trasloco dell’udienza, ponendosi quindi in un primo tempo nella prospettiva dell’abbandono della città, poi, di fronte alla caparbia resistenza degli Aquilani, si abbandonava l’idea. Sei giorni dopo il cataclisma, 8 febbraio, il Collaterale nominava ed inviava all’Aquila, non senza aver dovuto superare obiezioni dalle autorità provinciali e locali, il marchese della Rocca, Marco Garofalo quale commissario straordinario, con un piano d’intervento basato, oltre che sui soccorsi economici per la prima emergenza, sulla ricostruzione delle case e gli sgravi fiscali. Il Garofalo emanava il primo bando il 12 febbraio: «Coprifoco a due ore di notte, obbligo del lume già da un’ora prima, dieci giorni di galera ai ladri, necessità di un’apposita licenza tanto per l’estrazione dei cadaveri quanto per scavar mobili anche nella propria casa».

E il 18 un secondo, per la sistemazione di una grande baracca per i feriti nella piazza di San Bernardino. Di fatto poi l’organizzazione dello scavo delle macerie passò, ognuno per la propria competenza, all’autorità civica per gli edifici, le strutture e gli spazi pubblici, a quella ecclesiastica per le chiese e i conventi, ed ai singoli proprietari per le residenze private. Il reggente Biscardi aveva del resto osservato, in consiglio del Collaterale «che non ci si doveva tanto spaventare di quelle voci che sempre poi si ritrova molto inferiore il danno, né sarà difficile il darli soccorso perché in questi casi le genti operano da sé sole». Per la ricostruzione delle case, si noti, e la stessa riattivazione economica e generale ripresa sia della città sia dell’intero comprensorio, furono di fondamentale incentivo gli ampi sgravi fiscali deliberati, a 8 mesi dal terremoto, in forma differenziata, a seconda cioè dell’entità dei danni nei vari borghi del cratere.

Ossia: 10 anni per l’Aquila, 8 anni per Civitareale e Pizzoli, 7 per Castelnuovo, Leonessa e Posta, 6 per Arischia, Borbona e Montereale, 5 per Cagnano e Civitatomassa, 4 per Poggio Picenze, 3 per Accumoli, Amatrice, Assergi, Barete e Scoppito, 2 per Antrodoco, Borghetto, Campli, Cittaducale, Lugnano, Picenze, Preturo, Rocca Santo Stefano, Sassa, Tornimparte e Villa Sant’Angelo, ed 1 per Aragno, Bagno, Camarda, Filetto, Forcella, Fagnano, Tempera, Leporanica, Onna, Pescomaggiore, Roio, Sant’Eusanio, Collepietro, Tussillo, Paterno, Castiglione della Valle, Santa Rufina e Rocca di Fondi. Questo la dice lunga sulla ragionevolezza ed elasticità con le quali nel 1700 l’autorità statale si mosse, a fronte delle lentezze e la poca duttilità del pur “progredito” secolo XXI, paralizzati come si è da normative sia nazionali sia europee rigide, tanto per quanto riguarda la cosiddetta “zona franca”, quanto per ciò che concerne il tema della rimozione delle macerie; sicché a ben 8 mesi dal sisma 2009 queste ultime sono tuttora in situ, paralizzando il puntellamento degli edifici - necessariamente previo all’avvio della fase ricostruttiva - e l’ottenimento della “zona franca” e sospensione temporanea delle tasse costituisce motivo di discussione tra autorità nazionali e autorità locali.

Quanto al governo civico aquilano del 1703, come si è visto esso nel sisma era stato decimato, avendo avuto sepolti sotto le macerie i due principali magistrati elettivi: il camerlengo Alessandro Cresi e il grassiere Nicola Romanelli. Il 19 febbraio su ordine del Garofalo si radunò il primo consiglio generale, riunendo appena 43 cittadini, per sostituire le autorità venute a mancare: un consiglio generale, che dinanzi all’urgenza ed immanità dei problemi che assillavano la città, confessò implicitamente la propria impotenza rinunziando a riconvocarsi per oltre tre mesi, succube anche dell’autoritarismo sbrigativo del commissario straordinario marchese della Rocca, il Garofalo cioè, i cui rapporti con la classe dirigente cittadina non furono precisamente esemplari.

Poi lentamente, nei mesi successivi, superato lo stordimento iniziale, il governo municipale riacquistava forza ed autonomia, tale che dal giugno 1703 riassumeva il proprio ruolo amministrativo, indebolendo di conseguenza il potere del commissario straordinario. Fino a che «la città andò avanti per proprio conto» e «con o senza la partecipazione governativa» i lavori all’Aquila, illustratici dai rogiti, procederono speditamente, fatto che contribuì a maggiormente a logorare la posizione del Garofalo, formalmente investito di potestà larghissima di vicario generale e commissario di campagna, ma in realtà non più in grado di sostanziare con provvedimenti adeguati e concreti il suo ufficio straordinario.

Sicché nel gioco libero delle contrastanti forze economiche apparve completamente emarginata la presenza dello Stato, e per essa la missione eccezionale del Garofalo, nei suoi presupposti e nel suo significato, dandosi, dal 23 giugno in poi, il colpo di grazia alla sua posizione ormai ingiustificabile; così il 17 luglio 1703 egli si dimise.
Il finanziamento della ricostruzione delle case e delle chiese fu a carico degli interessati. Il governo centrale e quello civico si occuparono del rifacimento e restauro delle strutture pubbliche. La ricostruzione della cattedrale e delle chiese parrocchiali intra moenia fu auto-finanziata vendendo censi, ipotecando beni immobili, vendendo beni mobili come pietre concie, campane, arredi e suppellettili, e facendole in gran parte ristrutturare, completare ed abbellire dalle famiglie patrizie, che vi avevano il patronato delle cappelle private e delle sepolture.

La ricostruzione delle chiese dei religiosi in genere fu presa a carico dagli ordini e congregazioni rispettive, anche a raggio europeo come fecero i celestini di Collemaggio, e quella delle chiese congregazionali dalle rispettive confraternite. Quanto alle parrocchiali o chiese devozionali dei centri della vallata, la ricostruzione fu assicurata in gran parte dalle casate nobili possidenti i rispettivi feudi, dalle famiglie facoltose che avevano il patronato di cappelle e altari, oppure utilizzando le eventuali ricche rendite delle parrocchie, ed a volte beneficiando dell’iniziativa di benemeriti titolari ecclesiastici, arcipreti e prevosti, che attinsero generosamente anche dalle proprie sostanze familiari. Il processo di ricostruzione degli edifici di culto, con gli strumenti e i ritmi di allora, si può dire durò 50 anni, distinti in tre fasi.

Nella prima, il ventennio seguito al sisma, si ricostruirono pressoche tutte le chiese cittadine principali e ad opera di prestigiosi nomi romani. Nella seconda, ossia gli anni Venti e Trenta del 1700, si configurarono gli interni di alcune chiese minori che erano state progettate e rialzate al rustico nella prima fase. Nella terza, ossia gli anni Quaranta/Cinquanta del 1700, si procedette a radicali innovazioni architettonico-stilistiche di edifici sacri che erano stati riedificati magari nel decennio dopo il terremoto, ma i cui committenti, colpiti dalle magnifiche fabbriche erette successivamente, decisero di ricostruirli dalle fondamenta con nuovi e diversi piani, aggiornati stilisticamente: ad esempio la Santa Caterina Martire, di Ferdinando Fuga, nel 1753.

Una fase extra conclusiva si aggiunse negli anni Sessanta e Settanta, in cui si realizzarono caratteristici progetti in tardo-barocco come il San Luigi, l’Annunziata, il San Giuseppino, e per ultima, nel 1770-75, la facciata del Suffragio in Piazza, di Francesco Leomporra. Da segnalare che nel corso di tale interminabile cantiere non soltanto si procedé a ricostruire il patrimonio chiesastico crollato, ma si profittò altresì a sanare in radice, impostandole nuove dalle fondamenta, molte costruzioni sacre medioevali che dal 1600 in poi per la smania di modernizzazione tipica del tempo erano state rimaneggiate.