Laura, l'Abruzzo che funziona Dall'America torna al Cesi

29 Settembre 2010

Storia di una giovane ricercatrice pescarese tornata dopo la formazione in California e a Yale. Così si fermano i "cervelli in fuga"

PESCARA. E' stata la prima ricercatrice abruzzese a tornare in Italia grazie a una legge del senatore del Pd, Ignazio Marino, che aiuta gli studiosi più brillanti. Laura Bonanni è uno dei pochi «cervelli di ritorno» nel panorma scientifico nazionale e, da tre anni, lavora con un contratto a tempo indeterminato al Cesi, il centro studi sull'invecchiamento che ha sede nel campus della d'Annunzio, a Chieti. Il suo «caso» è stato citato dallo stesso Marino, in una recente intervista al Centro.

Come ci si sente a non dover necessariamente migrare all'estero?
«Ho letto l'intervista al professor Marino. Come mi sento? Fortunata, certamente».

Scienziata ma anche madre di due bambine, di 5 anni e 4 mesi. Riesce sempre a fare bene tutto?
«Basta un po' di organizzazione, la garanzia di un aiuto in casa e poter lavorare in un contesto agevole. Considero il fatto di essere madre come un arricchimento professionale, poter staccare con la mente dal lavoro di ricerca».

I suoi studi l'hanno spesso portata fuori dall'Italia, che rapporto ha con le università dove si è formata?
«Ottimo. Ho studiato in California, a Irvine. Durante il dottorato, ho frequentato un laboratorio a Yale con il quale mantengo una collaborazione stretta. Ogni anno ci torno nel periodo estivo».

Nostalgia degli Usa?
«Ho terminato il dottorato nel 2007. Il professor Onofrj, che si occupa di studi all'avanguardia sulle neuroscienze, mi ha dato l'opportunità di partecipare a un concorso a tempo determinato. Superata la selezione, dopo un anno, ho partecipato al concorso per ricercatore a tempo indeterminato. Superato anche quello, eccomi qui. Oggi sono alla d'Annunzio, felice di poterci restare. Perché è l'università dove mi sono formata. Lo considero un onore».

Tutto questo grazie al sostegno di una legge.
«Proprio così. Fondi che aiutano a gestire la ricerca autonomamente, di portare avanti idee senza coinvolgimenti delle istituzioni».

A quali pressioni sono soggetti i ricercatori?
«Spesso, la ricerca è indirizzata dagli istituti. Nel mio caso, c'è maggiore libertà e responsabilizzazione. Lo dico perché è più semplice seguire indirizzi precostituiti o prendendo spunto da altri studiosi».

Ci spieghi il suo progetto.
«Mi occupo della comprensione dei meccanismi che sono alla base di alcuni tipi di demenza associati alla malattia di Parkinson».

Perché tanti sono costretti a lasciare l'Italia?
«Qui c'è il grosso problema della precarietà, non c'è continuità nella ricerca. Io sono al primo step di una carriera lunga, che prevede l'associatura e l'ordinariato. Tappe che non sono automatiche. C'è sempre un concorso da superare e nulla è scontato perché, in Italia, ci sono ricercatori di grandissimo livello».

Eppure, l'università è piena di problemi.
«E' difficile fare ricerca senza fondi e con pochi posti disponibili, ma questo non vuol dire che i ricercatori italiani non abbiano la testa per emergere. Al contrario, quando si lavora in un ambiente favorevole, spesso si riesce a esprimere tutte le potenzialità».

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