Vespa: nella mia città distrutta
Esce oggi «Donne di cuori» il nuovo volume del giornalista aquilano.
Esce oggi, venerdì 6 novembre, il nuovo libro di Bruno Vespa «Donne di cuori-Duemila anni di amore e potere. Da Cleopatra a Carla Bruni, da Giulio Cesare a Berlusconi» (Mondadori Rai Eri, 564 pagine, 20 euro). Un grande affresco sul ruolo delle donne nella storia: dall’insuperabile Cleopatra agli amori di Napoleone, dalle lettere appassionate di Garibaldi alla bulimia sessuale di Kennedy e Clinton, dalle seconde unioni di Fini, Casini, Bossi, D’Alema fino alla vivace vita amorosa di Berlusconi, seguendo il filo rosso dell’eros, dell’amore e della seduzione. Pubblichiamo l’anticipazione del capitolo «Dal G8 tra le macerie al tormentone giudiziario».
di Bruno Vespa
Da Putin e da altri leader di tutto il mondo sono arrivati a Berlusconi complimenti particolari per la gestione dell’emergenza in occasione del terremoto dell’Aquila. Il sisma del 6 aprile è difficile da raccontare a chi non l’abbia vissuto e non ne abbia visto con i propri occhi le conseguenze. La mattina stessa del terremoto sorvolai in elicottero la mia città e subito capii che la tragedia era molto più grave di come l’avesse mostrata la televisione. Nessuna delle meravigliose basiliche era stata risparmiata, e qui e là, nei quartieri più vecchi, ma anche, sorprendentemente, in quelli eleganti degli anni Sessanta e Settanta, c’erano squarci orribili. Una volta atterrato, andai nella parte nuova del centro, in via XX Settembre: si udiva soltanto il rumore di un’escavatrice affacciata sul cumulo di rovine di quella che era la Casa dello studente. Il grosso braccio metallico accarezzava le macerie per non ferire i corpi che ancora non erano stati recuperati: c’erano morti e vivi, là sotto.
Di fronte, la bella casa dove abitava Maurizio Cora, mio compagno di giochi durante l’infanzia, era crollata su se stessa come un castello di sabbia dopo il calcio di un bambino capriccioso o distratto. Sotto quell’ammasso di detriti c’erano sua moglie e le sue due bellissime figlie. Nell’appartamento accanto, è morta Giulia Carnevale, studentessa di ingegneria. Allora non sapevamo che nella sua automobile c’era un computer e, nel computer, il progetto di un asilo che avremmo costruito in sua memoria a Onna con i soldi raccolti da «Porta a porta». Calpestando quel che restava di edifici recenti, accarezzando i pupazzi di peluche che spuntano dalle macerie di ogni terremoto, una domanda mi martellava nel cervello: perché? Perché, costruendo case nell’ultimo mezzo secolo, non si è ricordata la lezione del terremoto della fine degli anni Cinquanta, di cui solo alcuni mostrarono di tener conto? Perché?
Nei giorni seguenti mi arrivò con il passaparola l’elenco degli amici morti, di tanti pezzi di vita stroncati. Una bella signora, che da ragazza mi guardava con i suoi stupendi occhi verdi, era morta insieme al marito. Telefonai al mio amico più caro e seppi che il terremoto si era preso sua mamma. La casa dove ho trascorso tanti pomeriggi di studio, dalle elementari al liceo, non c’era più. Mi tornarono in mente il suono del campanello, il guaito amichevole della vecchia cagna che veniva a salutarmi, il sorriso di quella donna raffinata che non avrei più rivisto. Nei mesi successivi tornai con calma a quella che era stata la casa di mia moglie. Mi colpì il fatto che si potesse entrare senza chiavi. Il terremoto ti espropria di ogni intimità psicologica, distrugge la riservatezza della tua vita. I vigili non volevano che salissi al piano superiore.
Li tranquillizzai attingendo alle mie vecchie nozioni sul terremoto: se arriva una scossa, dissi, vado a ripararmi sotto quella trave, e poi voi venite a recuperarmi. Salii, mi arrampicai sui calcinacci. Dai cassetti aperti di un mobile rovesciato in terra tirai fuori un pacco di fotografie e un album: era il «book», come si dice adesso, del nostro matrimonio. Poi andai alla mia casa natale, per fortuna poco danneggiata, eppure inagibile ancora alla fine del 2009. Un palazzo abitato da fantasmi: imposte semiaperte, tende al vento, camere deserte. Ecco il cortile-giardino dove giocavo da bambino, ecco l’albero di ciliegio che faceva disperare il vecchio custode per paura che ci avvicinassimo ai frutti. Ecco le aiuole ormai spoglie delle dalie della mia infanzia. Nessuno entrava, nessuno usciva. La finestra dalla quale mia madre mi salutava a ogni partenza aveva le tapparelle abbassate a metà. Da mesi e mesi. Mia madre (per fortuna) se ne era andata prima del 6 aprile. Ma quella casa, ora, sembrava essersene andata con lei. Questo è il terremoto, per i fortunati che non l’hanno mai conosciuto.
Il terremoto dell’Aquila ha tolto la vita a 308 persone e un’abitazione a molte migliaia. Nessuno potrà mai rimarginare una ferita destinata a sanguinare per sempre in fondo all’anima di una città intera e dei tanti bellissimi paesi del Gran Sasso che la circondano. Ma il terremoto può anche essere una straordinaria occasione di riscatto civile, sociale ed economico. C’è chi ha saputo approfittarne e chi no. Ha saputo approfittarne il Friuli, che dal sisma del 1976 ha tratto spunto per una grandiosa rinascita economica. Non ha saputo approfittarne l’Irpinia, dove un fiume di miliardi si è disperso in rivoli talvolta ben poco virtuosi. L’Aquila non può mancare questa occasione irripetibile. Il governo, bisogna riconoscerlo, nell’emergenza ha fatto cose che non avevo mai visto. Ho seguito tutti i terremoti degli ultimi trent’anni: la prima fase è sempre stata quella dei container.
Molte famiglie li tenevano con una cura commovente, con le tendine ricamate ai vetri, ma erano dei monocamera. All’Aquila, al 31 ottobre 2009, meno di sette mesi dopo il terremoto, 4850 persone abitavano in una casa vera. E Guido Bertolaso mi disse che, entro metà gennaio 2010, oltre 17.000 aquilani avrebbero trovato alloggio in queste nuove strutture. (Ma si sarebbe potuti arrivare anche a 20.000, visto che gli appartamenti sono dotati di divani letto singoli o matrimoniali.) Molti, in attesa della sistemazione definitiva, preferirono restare nelle tende nonostante il freddo dell’autunno piuttosto che allontanarsi negli alberghi. Ho visitato queste case: la tipologia media è due camere da letto, soggiorno, cucina e bagno. Ma ce ne sono anche con una sola camera da letto o invece con tre. Sono arredate completamente, con bei mobili ed elettrodomestici dell’ultima generazione. Il televisore a schermo piatto è identico al modello che ho comprato io.
Ci sono piatti, posate, pentole; biancheria da letto e da bagno; spazzolini da denti, accappatoi, saponi di ogni genere, e così via. Dopo la scossa del 6 aprile 2009, gli sfollati sistemati in tenda e negli alberghi erano 67.500. A fine ottobre, 15.000 nuclei familiari avevano fatto richiesta di contributi di «autonoma sistemazione» (parenti, case in affitto) in attesa di rientrare al più presto nelle case meno danneggiate o nelle nuove abitazioni antisismiche. La gestione dell’emergenza è stata, comunque, la migliore mai vista in Italia (e non solo). Sono meno ottimista, invece, sui tempi e i modi della ricostruzione. Il solo centro storico dell’Aquila ha 1500 edifici storici con vincolo monumentale. Se il terremoto di Umbria e Marche è costato a consuntivo 7 miliardi di euro, per il capoluogo abruzzese la cifra sarà ben maggiore. «Credo non si potesse fare meglio e di più» mi dice Berlusconi. «Abbiamo concepito e realizzato un vero miracolo. Quello di costruire una nuova città di oltre 30.000 abitanti in meno di cinque mesi.» Il Cavaliere ha sempre assicurato che lo Stato non farà mancare agli enti locali tutto il denaro necessario, ma si è sempre detto contrario all’istituzione di una tassa di scopo per non venir meno al principio di non alzare le imposte agli italiani.
di Bruno Vespa
Da Putin e da altri leader di tutto il mondo sono arrivati a Berlusconi complimenti particolari per la gestione dell’emergenza in occasione del terremoto dell’Aquila. Il sisma del 6 aprile è difficile da raccontare a chi non l’abbia vissuto e non ne abbia visto con i propri occhi le conseguenze. La mattina stessa del terremoto sorvolai in elicottero la mia città e subito capii che la tragedia era molto più grave di come l’avesse mostrata la televisione. Nessuna delle meravigliose basiliche era stata risparmiata, e qui e là, nei quartieri più vecchi, ma anche, sorprendentemente, in quelli eleganti degli anni Sessanta e Settanta, c’erano squarci orribili. Una volta atterrato, andai nella parte nuova del centro, in via XX Settembre: si udiva soltanto il rumore di un’escavatrice affacciata sul cumulo di rovine di quella che era la Casa dello studente. Il grosso braccio metallico accarezzava le macerie per non ferire i corpi che ancora non erano stati recuperati: c’erano morti e vivi, là sotto.
Di fronte, la bella casa dove abitava Maurizio Cora, mio compagno di giochi durante l’infanzia, era crollata su se stessa come un castello di sabbia dopo il calcio di un bambino capriccioso o distratto. Sotto quell’ammasso di detriti c’erano sua moglie e le sue due bellissime figlie. Nell’appartamento accanto, è morta Giulia Carnevale, studentessa di ingegneria. Allora non sapevamo che nella sua automobile c’era un computer e, nel computer, il progetto di un asilo che avremmo costruito in sua memoria a Onna con i soldi raccolti da «Porta a porta». Calpestando quel che restava di edifici recenti, accarezzando i pupazzi di peluche che spuntano dalle macerie di ogni terremoto, una domanda mi martellava nel cervello: perché? Perché, costruendo case nell’ultimo mezzo secolo, non si è ricordata la lezione del terremoto della fine degli anni Cinquanta, di cui solo alcuni mostrarono di tener conto? Perché?
Nei giorni seguenti mi arrivò con il passaparola l’elenco degli amici morti, di tanti pezzi di vita stroncati. Una bella signora, che da ragazza mi guardava con i suoi stupendi occhi verdi, era morta insieme al marito. Telefonai al mio amico più caro e seppi che il terremoto si era preso sua mamma. La casa dove ho trascorso tanti pomeriggi di studio, dalle elementari al liceo, non c’era più. Mi tornarono in mente il suono del campanello, il guaito amichevole della vecchia cagna che veniva a salutarmi, il sorriso di quella donna raffinata che non avrei più rivisto. Nei mesi successivi tornai con calma a quella che era stata la casa di mia moglie. Mi colpì il fatto che si potesse entrare senza chiavi. Il terremoto ti espropria di ogni intimità psicologica, distrugge la riservatezza della tua vita. I vigili non volevano che salissi al piano superiore.
Li tranquillizzai attingendo alle mie vecchie nozioni sul terremoto: se arriva una scossa, dissi, vado a ripararmi sotto quella trave, e poi voi venite a recuperarmi. Salii, mi arrampicai sui calcinacci. Dai cassetti aperti di un mobile rovesciato in terra tirai fuori un pacco di fotografie e un album: era il «book», come si dice adesso, del nostro matrimonio. Poi andai alla mia casa natale, per fortuna poco danneggiata, eppure inagibile ancora alla fine del 2009. Un palazzo abitato da fantasmi: imposte semiaperte, tende al vento, camere deserte. Ecco il cortile-giardino dove giocavo da bambino, ecco l’albero di ciliegio che faceva disperare il vecchio custode per paura che ci avvicinassimo ai frutti. Ecco le aiuole ormai spoglie delle dalie della mia infanzia. Nessuno entrava, nessuno usciva. La finestra dalla quale mia madre mi salutava a ogni partenza aveva le tapparelle abbassate a metà. Da mesi e mesi. Mia madre (per fortuna) se ne era andata prima del 6 aprile. Ma quella casa, ora, sembrava essersene andata con lei. Questo è il terremoto, per i fortunati che non l’hanno mai conosciuto.
Il terremoto dell’Aquila ha tolto la vita a 308 persone e un’abitazione a molte migliaia. Nessuno potrà mai rimarginare una ferita destinata a sanguinare per sempre in fondo all’anima di una città intera e dei tanti bellissimi paesi del Gran Sasso che la circondano. Ma il terremoto può anche essere una straordinaria occasione di riscatto civile, sociale ed economico. C’è chi ha saputo approfittarne e chi no. Ha saputo approfittarne il Friuli, che dal sisma del 1976 ha tratto spunto per una grandiosa rinascita economica. Non ha saputo approfittarne l’Irpinia, dove un fiume di miliardi si è disperso in rivoli talvolta ben poco virtuosi. L’Aquila non può mancare questa occasione irripetibile. Il governo, bisogna riconoscerlo, nell’emergenza ha fatto cose che non avevo mai visto. Ho seguito tutti i terremoti degli ultimi trent’anni: la prima fase è sempre stata quella dei container.
Molte famiglie li tenevano con una cura commovente, con le tendine ricamate ai vetri, ma erano dei monocamera. All’Aquila, al 31 ottobre 2009, meno di sette mesi dopo il terremoto, 4850 persone abitavano in una casa vera. E Guido Bertolaso mi disse che, entro metà gennaio 2010, oltre 17.000 aquilani avrebbero trovato alloggio in queste nuove strutture. (Ma si sarebbe potuti arrivare anche a 20.000, visto che gli appartamenti sono dotati di divani letto singoli o matrimoniali.) Molti, in attesa della sistemazione definitiva, preferirono restare nelle tende nonostante il freddo dell’autunno piuttosto che allontanarsi negli alberghi. Ho visitato queste case: la tipologia media è due camere da letto, soggiorno, cucina e bagno. Ma ce ne sono anche con una sola camera da letto o invece con tre. Sono arredate completamente, con bei mobili ed elettrodomestici dell’ultima generazione. Il televisore a schermo piatto è identico al modello che ho comprato io.
Ci sono piatti, posate, pentole; biancheria da letto e da bagno; spazzolini da denti, accappatoi, saponi di ogni genere, e così via. Dopo la scossa del 6 aprile 2009, gli sfollati sistemati in tenda e negli alberghi erano 67.500. A fine ottobre, 15.000 nuclei familiari avevano fatto richiesta di contributi di «autonoma sistemazione» (parenti, case in affitto) in attesa di rientrare al più presto nelle case meno danneggiate o nelle nuove abitazioni antisismiche. La gestione dell’emergenza è stata, comunque, la migliore mai vista in Italia (e non solo). Sono meno ottimista, invece, sui tempi e i modi della ricostruzione. Il solo centro storico dell’Aquila ha 1500 edifici storici con vincolo monumentale. Se il terremoto di Umbria e Marche è costato a consuntivo 7 miliardi di euro, per il capoluogo abruzzese la cifra sarà ben maggiore. «Credo non si potesse fare meglio e di più» mi dice Berlusconi. «Abbiamo concepito e realizzato un vero miracolo. Quello di costruire una nuova città di oltre 30.000 abitanti in meno di cinque mesi.» Il Cavaliere ha sempre assicurato che lo Stato non farà mancare agli enti locali tutto il denaro necessario, ma si è sempre detto contrario all’istituzione di una tassa di scopo per non venir meno al principio di non alzare le imposte agli italiani.