Eusebio Di Francesco: coraggio e positività per conquistare Roma
«Sono un “cocciuto”: lavoro e gruppo alla lunga pagano Dalla gavetta al grande club con la stessa voglia di osare»
PESCARA. La grande sfida di Eusebio Di Francesco: conquistare Roma. Pardon, riconquistare perché lui nella Capitale ha già fatto la storia, vincendo il secondo scudetto giallorosso, nel 2001, con Capello in panchina. Eusebio 3.0: prima calciatore, poi dirigente e ora allenatore. E’ l’eccellenza calcistica abruzzese: nell’ultima stagione ha guidato il Sassuolo in Europa League, da settembre farà la Champions con i giallorossi. E’ appena tornato dalle vacanze in Sardegna, più carico che mai. Deciso a sfruttare fino in fondo la grande occasione.
Di Francesco e la Roma, un sogno che si realizza?
«Più che un sogno parlerei di un obiettivo centrato. Tornare a Roma significa alzare l’asticella professionale, una nuova sfida affascinante. Non sono un grande sognatore, ma arrivare ad allenare la Roma è stato un po’ come il percorso che ho fatto da calciatore, sono partito dal basso e ho fatto le mie esperienze per arrivare a questa possibilità che cercherò di sfruttare al meglio».
Un abruzzese alla conquista della Capitale.
«Origini, cultura e tradizioni. Mi porto dietro tutto della mia terra e appena posso torno a casa. Siamo “cocciuti” (testuale, ndr) noi abruzzesi, nel senso positivo del termine. Forti e gentili, è uno slogan che mi piace. Ci prefiggiamo un obiettivo e cerchiamo di raggiungerlo con tutte le nostre forze».
E il suo obiettivo ora?
«Creare un gruppo che comprenda squadra, società e ambiente. Dargli un’anima e soprattutto una cultura del lavoro. Io non conosco altre strade per ottenere i risultati se non quella del lavoro».
Si dice sempre: ambiente difficile quello romano per via della pressione dei mass media.
«Io non penso a questo, penso solo a organizzare il mio lavoro. Poi, ognuno deve fare la sua parte nel rispetto dei ruoli».
Arriva dopo un secondo posto, per migliorarsi c’è solo una cosa da fare.
«Parlare di scudetto è prematuro. Ora noi dobbiamo solo pensare a lavorare, poi vedremo. Siamo in pieno mercato. Stiamo prendendo giocatori importanti che serviranno a fare bene nelle tre competizioni in cui saremo impegnati. Per me saranno tutti titolari, appunto perché giocheremo tante partite».
Anche la Champions.
«L’affronteremo con leggerezza, ma con la determinazione di chi vuole fare bene».
Come state costruendo la nuova Roma?
«Cercando di avere due giocatori forti per ogni ruolo. Ci deve essere competitività, una caratteristica imprescindibile per chi vuole migliorarsi».
Lei invece che cosa porterà in dote?
«Lavoro e positività. Perché vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto? Idee chiare, sorriso e determinazione. Come in ogni cosa della vita».
Lei, Masetti e Bernardini avete un percorso in comune.
«Quale?».
Prima calciatori, poi dirigenti e infine allenatori della Roma.
«E’ un ulteriore motivo di orgoglio per me».
Cambierà Di Francesco in una grande piazza?
«Cercherò di essere sempre me stesso, anche se professionalmente cambierà qualcosa. Si alza il livello. Ma io cercherò di trasmettere quello che ho sempre dato anche in passato. Poi, sarà fondamentale la disponibilità del singolo di fronte al progetto».
Di Francesco e la fede.
«E’ un rapporto forte legato anche alle vicissitudini della vita. Ho visto tanti ragazzi sfortunati, prego spesso per loro. Di certo, non prego per vincere una partita di calcio, questo è poco ma sicuro».
Dittatore o disposto al confronto?
«Non amo gli yes man, tanto per intenderci. E né lo sono io. Preferisco il confronto con chi magari la pensa diversamente in modo tale da apprendere qualcosa di nuovo. C’è sempre da imparare nella vita».
A Roma si aspetta il nuovo stadio.
«Spero arrivi il prima possibile. E’ un valore aggiunto sotto tanti punti di vista. Sul piano dei risultati, ma anche per il calcio italiano. Noi siamo abituati a lamentarci guardando quel che accade di buono nelle altre nazioni. Poi, però, abbiamo una scarsa attitudine al cambiamento. Quando c’è la novità siamo sempre diffidenti. Ecco che puntualmente sui grandi temi ci troviamo indietro di venti anni».
Vale per il calcio come per la politica.
«Serve la voglia di osare. A tutti i livelli. Non bisogna mai accontentarsi. Io sono arrivato alla Roma perché ho sempre cercato di migliorarmi. E per riuscirci ho sempre osato».
Anche sbagliando quando ha lasciato Pescara nel 2011, in serie B, per andare a Lecce in serie A.
«Tornassi indietro non rifarei quella scelta perché non bisogna andare in un club dove c’è la proprietà (all’epoca la famiglia Semeraro, ndr) che sta vendendo».
Il momento più felice nel calcio?
«Il giorno del mio esordio in Nazionale, quando ho coronato il sogno che coltivavo da bambino».
Quello più emozionante?
«La promozione del Pescara in serie B, nel 2010. Vuoi perché è stata dura vuoi perché ho reso felice mio padre (Arnaldo, ndr) che è un grande tifoso biancazzurro».
Quaranta anni fa la prima promozione del Pescara in serie A.
«Avevo 8 anni, ricordo la città in festa. Un bagno di entusiasmo. E poi ho sempre avuto ammirazione per i centrocampisti di quel Pescara: Zucchini, Nobili e Repetto».
Lei è il primo allenatore scelto da Monchi, il ds spagnolo sbarcato in Italia appena qualche mese fa.
«Ha una grande competenza. Ma soprattutto mi ha colpito la visione del calcio che è praticamente identica alla mia. Già mi seguiva in precedenza. Ci ritroviamo in tante cose».
A Londra ha incontrato il presidente James Pallotta.
«Bella esperienza. Ho conosciuto una persona con il gusto dell’ironia, oltre alle altre qualità che sono conosciute da tutti».
E poi c’è Totti.
«E’ uno dei miei ex compagni di squadra con cui ho mantenuto il rapporto con gli anni. Farà il dirigente, con quali mansioni lo vedremo. Ma sarà una presenza di spessore e di aiuto al mio fianco. L’allenatore sono io, ma Francesco non potrà che rivelarsi un valore aggiunto anche dietro la scrivania».
La parola scudetto?
«A Sassuolo dicevo che era un’utopia. A Roma non lo è, ma bisogna lavorare sodo. A me interessa che la gente si riavvicini alla squadra. Che l’ambiente sia un blocco monolitico».
Juve (ancora) favorita per lo scudetto?
«Dopo sei scudetti di fila non può che essere così».
C’è un giocatore che è curioso di vedere nella sua Roma?
«Bravo, curioso è il termine giusto per Gerson, un 1997 che io vedo nel ruolo di mezzala e che secondo me ha grandi mezzi inespressi».
E Lorenzo Pellegrini, l’under 21 che lei si riporta dietro da Sassuolo?
«Mi prendo i miei meriti nella sua crescita, ma senza la sua disponibilità al lavoro sarebbe stato impossibile per lui tornare alla Roma. Stiamo parlando di un ragazzo che per cinque mesi non ha visto il campo a Sassuolo, ma ha lavorato sodo fino a diventare titolare in serie A e nell’under 21. E’ una mezzala abile negli inserimenti, bravo nella fase offensiva».
Un giorno allenerà suo figlio Federico?
«Non penso per una questione di opportunità».
Intanto, Federico è diventato uomo mercato: si parla di un trasferimento da Bologna a Napoli.
«Gli faccio i complimenti, ma chi si ferma è perduto. E’ stato bravo ad arrivare in serie A, però per restarci deve ancora dimostrare tanto».
E poi ci sono il Pescara e Zeman.
«Dura ripartire dopo una retrocessione. Ma la programmazione può fare la differenza. E il mister in serie B è un valore aggiunto. Servono giocatori adatti al suo tipo di gioco e che abbiano cultura del lavoro».
Tra una settimana il Pescara sarà al lavoro.
(sorride) “Sarà dura per i ragazzi, molto dura… ».
Lei conosce i suoi metodi di lavoro.
«Ho problemi alle anche. Ogni tanto ricordo al mister che è colpa sua, del suo lavoro atletico molto duro».
E lui?
«Mi risponde che è colpa di Capello…».
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