Pescaraporto, Ruffini: «Ho fatto solo il portalettere»
L'ex segretario del governatore racconta al Centro l'incontro con Milia: «Me lo chiese il presidente. Io portai quella minuta al dirigente Di Biase»
PESCARA. E’ indagato con Luciano D’Alfonso, Giuliano Milia, Guido Dezio e Vittorio Di Biase nell’inchiesta Pescaraporto. Secondo la procura di Pescara, il ruolo che Claudio Ruffini ha svolto sarebbe stato quello di recarsi nello studio dell’avvocato Giuliano Milia, legale di fiducia di D’Alfonso e padre dell’amministratore della società contitolare di Pescaraporto, per farsi dare una lettera da consegnare a Di Biase, il dirigente del Genio Civile che ha poi espresso parere favorevole all’insediamento immobiliare nell’area ex Edison della Riviera sud.
Con un sms, acquisito dagli investigatori, il governatore D’Alfonso avrebbe dato quell’incarico al suo segretario particolare: «Vai da Milia». Ruffini, difeso dall'avvocato teramano Gennaro Lettieri, è già stato interrogato dalla pm Anna Rita Mantini. E si è difeso. Il Centro lo ha intervistato. Per ricostruire la storia e il ruolo da lui svolto.
Signor Ruffini secondo lei l’insediamento Pescaraporto si può fare?
«Non lo so. Io ho fatto il portalettere. Sono andato là, ho preso la lettera e poi l’ho data all’ingegner Di Biase. La domanda non me la sono posta. Non sapevo cosa riguardasse di preciso. Poi ho capito che si tratta di un’area di proprietà della famiglia (Milia, ndr). Pare che avessero già la concessione edilizia. Poi la Regione ha fatto il piano delle alluvioni e credo che loro abbiano chiesto una modifica al progetto originario. Ma di che modifica si tratti non l’ho capito. Aumento di volumi? Cambio di destinazione d’uso? Non lo so».
Chi ha scritto quella lettera che lei ha portato a Di Biase?
«Quella è una lettera che Milia ha scritto perché, da quello che ho potuto capire, insisteva che c’era già la concessione edilizia e che era un diritto acquisito. Ma ci ho riflettuto dopo perché, quando lui parlava e scriveva, io non capivo che cosa volesse dire».
Lei dice di non essere andato da Milia di sua iniziativa e che era all’oscuro del contenuto della lettera. Ma D’Alfonso le ha spiegato perché doveva andare lì?
«No. Né prima né dopo. Mi ha solo detto di andare».
Da Milia, con lei, c’era anche Guido Dezio, vicedirettore generale del Comune di Pescara. Perché?
«Non lo so se Dezio conoscesse l’argomento. Dezio l’ho trovato lì. E’ stato con me, però che funzione avesse non me lo sono chiesto. A volte nelle cose non c’entravo più di tanto».
D’Alfonso le ha detto di andare da Milia e poi di portare la lettera a Di Biase?
«Mi ha detto solo di andare lì».
E chi le detto di andare dal dirigente del Genio Civile?
«Milia. Io poi con il presidente non ho avuto nessun rapporto su questo argomento. Gli avrò anche detto di essere stato da Milia, ma non lo ricordo».
Con Di Biase ci sono stati due incontri. Perché?
«Da quello che ricordo lui di quella lettera non capiva, e io gli dicevo che Milia l’aveva scritta così».
Gli investigatori ipotizzano che nella lettera venisse chiesto di più di quanto poi è stato concesso.
«Non ricordo se i contenuti della lettera di Milia e di quello che ha scritto poi Di Biase coincidono esattamente. Non ho tenuto copie. Non posso fare nessun tipo di confronto e valutazione».
Cioè non custodisce nessuna carta. Ha però il verbale dell’interrogatorio dal pm?
«Si, quello sì».
È lungo il verbale?
«L’interrogatorio è durato un paio d’ore mi sembra. Sono quattro-cinque pagine».
Possiamo pubblicare quel verbale?
«No, non ce l’ho nemmeno io, ce l’ha il mio avvocato. Io non mi porto mai niente a casa. E poi con tutte le mie indagini...».
Quante ne ha di indagini?
«Palazzo Centi, questa e la storia di Penne».
Qualcuno le ha espresso solidarietà, magari lo stesso presidente D’Alfonso, rassicurandola che tutto finirà bene?
«Di parole di solidarietà ne ho ricevute parecchie. Però che rassicurazioni possono darmi? Mica possono sostituirsi ai giudizi».
Lei si è dimesso da tutti i suoi incarichi regionali perché è andato in pensione. Ma le sue dimissioni coincidono con le inchieste. E’ anche una strategia difensiva?
«La domanda di pensione l’ho fatta a maggio 2016, e ci sono andato il primo aprile perché, oltre all’età, compivo 42 anni e 10 mesi di lavoro. Per restare ci voleva un’autorizzazione del mio ente».
Torniamo a Pescaraporto. Lei dice di aver eseguito un ordine del suo presidente. Ma a posteriori, quando ha capito che chi le ha consegnato la lettera era interessato al procedimento, e che le dava una minuta che sarebbe finita in un atto pubblico, non le ha fatto una sensazione strana?
«In quegli istanti non è che uno si fa tante domande. Ripeto io non entravo nel merito degli atti. Non scrivevo provvedimenti, casomai li sollecitavo. Chi scrive provvedimenti deve porsi domande, se è un atto legittimo o non legittimo. Di argomenti, ogni giorno, ne trattavo una quantità esagerata. Non avevo nemmeno il tempo per dire: ma cosa dice questo atto? A queste cose ci pensano gli amministratori. Non io».
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